L'altra sera Massimo, Mahira e io abbiamo fatto la nostra prima serata insieme dai tempi di Pavia. L'occasione è stata l'inaugurazione di una mostra promossa dall'ong italiana VIS al Peace Center in Manger Square.
L'esposizione, intitolata “Inside Out” (“dentro fuori”), è il risultato finale di un lavoro fatto con studenti palestinesi sui “limiti”: non solo limiti fisici creati dall'occupazione. Soprattutto limiti mentali, spirituali. Pochi giorni fa scrivevo di come l'occupazione sia soprattutto un'occupazione mentale: questa mostra me lo conferma.
Per renderlo “visibile”, un fotografo ha pensato di realizzare degli scatti degli studenti mentre cercano di oltrepassare un muro di plexiglass: un muro trasparente, ma esistente. Che ti limita. Sembra che non ci sia ma è proprio questo il problema: c'è eccome ma non è facile da superare né da spiegare.
Fra pochi giorni posterò la foto che abbiamo fatto anche noi. Alla fine è diventata scherzosa, come sempre, ma il mio scopo era quello di scagliarmi con violenza contro il muro e abbatterlo a testate. Cosa che ho fatto per qualche secondo in un apice di insofferenza per tutto...
Atei
Era luglio e una sera sentii un discorso sulla religione fatto da volontari stranieri (europei). Si stupivano di come la religione sia un elemento che marchia l'identità di ognuno tanto che è presente come dato anagrafico anche nei documenti. “E se uno è ateo?” chiedeva provocatoriamente un tizio. “No, non ti crederebbero mai. Non esiste l'ateismo qui”.
Sbagliato. Esiste anche qui. Anzi: credo che proprio l'asfissia che a volte tutto questo fardello di religioni genera, spinga qualcuno a voler tirarsi fuori dai giochi. Io, per esempio -ben lungi dal diventare ateo- ormai provo repulsione per gli argomenti religiosi: non ne voglio sapere (anche se continuo a parlarne, è inevitabile). Non voglio vedere chiese né moschee né sinagoghe; evito mezzelune, croci, madonne, stelle di davide e menorah.
Se, però, a farlo sono quelli del posto, la cosa stupisce, no? La stessa sera della mostra “Inside Out” abbiamo conosciuto un ragazzo palestinese fuori dalla mosche di Omar, davanti alla Natività, che vendeva caffé. Dopo le solite domande sulla nostra origine, siamo finiti a parlare di religione non mi ricordo come, forse per il Ramadan. Il ragazzo, con aria un po' di sfida, risponde: “Non m'interessa la religione, io non ho dio. Non sono cristiano, non sono musulmano. Dio non esiste. Anzi sì, ma è questo qui” e, mostrando il berretto che porta, indica il volto di Che Guevara.
Un po' di tempo fa mi domandavo in che modo fossero coinvolti i cristiani nella lotta palestinese e se lo fossero. In fondo, la maggior parte dei palestinesi era abbastanza laica e soprattutto anche i movimenti armati erano politicizzati e lontani anni luce dalle influenze religiose, come il FPLP o il FDLP.
Dopo la mostra, siamo finiti in un locale di Beit Jala che si chiama “Taboo”. Il proprietario è un ex-cameriere dell'hotel francescano Casa Nova, quello che ospita i pellegrini cattolici. Ad un certo punto, stanco dei pellegrini, decise di cambiare totalmente aprendo questo posto che rappresenta veramente un piccolo “tabù”: resta aperto fino alle 5 del mattino, serve ogni tipo di alcolici e soprattutto piatti a base di carne di maiale. Il locale è famoso per una mega pelle di zebra dietro il bancone che è diventata parte integrante dell'iconografia. Per qualche ora ci è sembrato di essere in Europa: neanche la musica era araba e i ritmi caraibici scatenavano nel ballo ragazze con abiti attillati e canottierine scollate e i loro cavalieri. L'unica cosa “strana” era la presenza di crocifissi un po' ovunque.
Più tardi, mentre prendevo una boccata d'aria -il locale si era riempito di fumo per i narghilé- ho scambiato due parole al volo con uno dei proprietari, un palestinese cristiano, che mi chiese cosa ne pensavo della situazione palestinese. Gli ho raccontato della mia idea ideologicizzata alla partenza, e che il mio entusiasmo si è affievolito man mano a causa anche della comprensibile apatia dei palestinesi.
“Ti dico una cosa. – mi ferma – Prima eravamo tutti coinvolti nella lotta, tutti. Giovani, vecchi, bambini. Tutti abbiamo lottato per la Palestina anche se finivamo in carcere o uccisi. Ma la Seconda Intifada ci ha tagliato le gambe, ci ha distrutto. Io ora non guardo nemmeno le notizie, non voglio nemmeno sapere cosa succede qui a Betlemme. Siamo stanchi, abbiamo solo bisogno di pace ora”.
Ebrei
Faccio un salto di migliaia di chilometri, ma è un salto che nella mente spicco molte volte al giorno.
Varie volte ho scritto della massiccia presenza ebraica in Argentina. Ebbene oggi, sulla versione digitale del quotidiano di Buenos Aires Página/12, c'era un trafiletto interessante che riporto e traduco di seguito:
Separados
El rabino Iechel Weizman es un israelí de posiciones muy duras. De visita en Argentina, despertó polémicas internas por su mensaje. La tensión estalló cuando habló en el auditorio de la AMIA, en la calle Pasteur: las organizaciones de la comunidad judía Meretz, Tzavta, Convergencia e Icuf emitieron un repudio público porque Weizman insistió en que hombres y mujeres se sentaran separados. “AMIA es un espacio de toda la comunidad y no una sinagoga”, explicó el comunicado, que calificó al rabino de “fundamentalista con un mensaje racista”.
SEPARATI
Il rabbino Iechel Weizman è un israeliano dalle posizioni molto dure. In visita in Argentina, ha suscitato polemiche interne per il suo messaggio. La tensione è scoppiata quando ha parlato nell'auditorio della AMIA (Asociación Mutual Israelita Argentina, un'importante associazione ebraica di mutuo soccorso, n.d.t.), in via Pasteur: le organizzazioni della comunità ebraica Meretz, Tzavta, Convergenza e Icuf hanno emesso un [comunicato di] repudio pubblico perché Weizman aveva insistito affinché uomini e donne si sedessero separati. “AMIA è uno spazio per tutta la comunità e non una sinagoga”, spiega il comunicato, che definisce il rabbino “fondamentalista e con un messaggio razzista”.
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