9 settembre 2008

Energia positiva

Sono passate da poco le 8 di sera, è buio da un pezzo, l'aria è frizzantina e sto digerendo una cena abbondante a base di spezzatino e polenta, hummus, felafel e altre cosette palestinesi. Lo spezzatino è stato il mio contributo alla cena, un po' per ringraziare dell'ospitalità e dei tanti favori ma un po' anche per dimostrare concretamente che in Italia -contrariamente a quanto si crede qui- non si mangiano solo spaghetti e pizza!
Mentre solletico i tasti, mi accompagna una colonna sonora random che ora si è fermata sulle note di un vecchio ma rivoluzionario gruppo musicale argentino, i Sumo, guidati da un visionario e geniale tossicomane romano (Luca Prodan) che osava cantare in inglese proprio negli anni in cui la dittatura militare lo vietava.
Fuori, invece, posso sentire il muezzin che dalla moschea qui dietro guida la preghiera serale del dopocena.

Sì, è da un pezzo che non scrivo. Ero alla ricerca di stimoli dopo un periodo un po' piatto e monotono, privo di emozioni, di speranze (per la causa palestinese, intendo), di certezze...
Direi che ora sono arrivati.

In questi giorni è successo un po' di tutto. Nulla di sconvolgente ma almeno fuori dalla routine. Forse è stato l'arrivo di settembre e l'inizio del ramadan a scombussolare un po' tutto.

Per prima cosa ci si è messa la decisione di anticipare l'entrata in vigore dell'ora solare: per cui ora abbiamo la stessa ora italiana con la differenza che alle 18 inizia a far buio. In Israele, invece, il cambio dell'ora sarà a fine settembre, con l'inizio del nuovo anno ebraico. Per cui, da qui a Gerusalemme c'è il fusorario!!!

RAMADAN

Il Ramadan è molto diverso da quello che mi aspettavo. Intanto, si lavora meno: noi si chiude alle 14. Le strade della città brulicano di gente alla ricerca degli ultimi ingredienti per la cena. I datteri, provenienti da Jerico, vanno a ruba (secondo la tradizione, il digiuno si rompe mangiandone tre). I panifici sono tutti indaffarati a sfornare dolci e dolcetti vari, i venditori di shawarma (kebab in Italia) iniziano a cucinare solo verso le 16 ma intanto preparano le vasche di sottaceti, verdure e accompagnamenti vari. Nessuno beve, nessuno mangia, nessuno fuma. Anche i più laici tra i musulmani rispettano il Ramadan.

Ecco, il clima che si respira è quello che non mi aspettavo di trovare. Ho sempre assimilato questo momento della vita dei musulmani alla nostra Quaresima: un momento di penitenza, di digiuno, di astinenza, di preghiera (cosa che credo quasi nessuno faccia, ormai, me compreso a parte il non mangiare carne il venerdì). Invece mi devo ricredere: è più simile al clima Natalizio. Con tanto di lucette di Ramadan che illuminano le notti islamiche. Già: non alberi di natale o stelle comete bensì mezzelune e stelle colorate e intermittenti! Anche i programmi televisivi seguono questa direzione: invitano le famiglie a raccogliersi, a passare momenti insieme, a ritrovare parenti, far giocare i bambini...

La giornata tipo inizia alle 2.30 del mattino quando il muezzin lentamente sveglia la città col suo canto lamentoso. Di solito, ad accompagnarlo qui nei dintorni c'è un gallo che non ha ancora capito che l'alba è verso le 6 e non all'una di notte!!! Maledetto!!!
Una volta svegli, i musulmani fanno una colazione che definire abbondante fa sorridere. E poi, nuovamente a nanna fino all'ora di alzarsi sul serio per andare a lavorare o a scuola. Da qui, fino alle 18, niente cibo e niente acqua. Vietato ingerire qualsiasi cosa, fumo compreso. I più intransigenti sputanto anche la saliva. Lo scopo del digiuno è quello di far ricordare a tutti che c'è gente al mondo che patisce fame e sete e che è dovere di tutti nutrire e dissetare i meno fortunati. E' tradizione consolidata, tra l'altro, invitare i più poveri o meno fortunati al proprio tavolo per festeggiare insieme. Insomma: un clima “natalizio” vero e sincero, molto lontano da quello che è diventato il nostro Natale grazie al nostro stupido e irrefrenabile consumismo.

Ci ho provato anch'io a stare totalmente a digiuno un giorno. Mi sono alzato alle 2 del mattino per la mostruosa colazione (che mi è andata su e giù fino al primo pomeriggio) e per tracannare almeno 1,5 litri d'acqua. Alla fine, beh dai, ho resistito: stare senza cibo non è difficile (lo scoutismo insegna anche questo!). Ciò che mi ha fatto veramente soffire è stata la mancanza d' acqua: già alle 7.00 del mattino mi stavo disitratando e lamentando e alla sera ormai avevo le labbra secche. Altro che 3 datteri: appena il muezzin ha intonato il solito “Allaaahu akbar.... Allllaaaaaaaaahuaaaaakbaaaar...” ho prosciugato un'intera bottiglia d'acqua.
Mai più...

La fatica del digiuno, tuttavia, ha fatto riflettere anche me: ho pensato a quanto debba essere difficile osservare il Ramadan per i musulmani che vivono fuori dai paesi islamici. Cominciando da Treviso: lì l'orario non è cambiato per cui si cena più tardi; gli orari lavorativi non vengono modificati per cui la fatica aumenta notevolmente; il clima festivo del Ramadan è disturbato pesantemente da quei ferventi cattolici bestemmiatori dei leghisti. Sono bravi a non diventare veramente terroristi, dopo aver subito tante angherie e stupide repressioni. Sono certo che se ad un solo cristiano in giro per il mondo fosse impedito di celebrare il Natale (magari in un paese islamico), la stampa occidentale scatenerebbe il putiferio.



LETTURE

Lo scorso fine settimana sono stato colto da febbre di lettura. Ho avuto improvvisamente il bisogno di leggere, qualsiasi cosa: libri, riviste, giornali, pubblicità purché scritti in qualsiasi lingua a me comprensibile anche solo in parte. Unica condizione: niente file né siti internet (voglio sedermi fuori sul terrazzo a leggere veramente. Leggere, leggereeeeee!) e soprattutto che non tratti il conflitto israelo-palestinese o la religione (qualsiasi religione, anche quella che venera Bacco). Insomma: avevo assoluto bisogno di dare aria al cervello per evitare un surriscaldamento. Purtroppo a Betlemme non c'è granché: i pochi giornali sono in arabo, c'è un negozietto che vende riviste in inglese che definirei ormai antiquate e non ho visto una sola libreria o edicola. Ho chiesto una dritta a Jonas che mi ha consigliato la libreria del Centro per la Pace in Manger square (ma i libri sono prevalentemente sul conflitto). O di andare a Gerusalemme. Non ci ho pensato due volte: Gerusalemme.

Mi sono mosso un po' tardi, come al solito sono andato a piedi fino al checkpoint (da dove sto io ci si mette una mezz'oretta) e lì ho trovato coda, l'autobus ci ha messo un po' a partire e quando sono arrivato era tardi. Ancora più tardi considerando il “fusorario”, che io non avevo calcolato. Per cui, ancora una volta tutto chiuso. E vaffanculo!!!! Almeno ho respirato un minimo di libertà, nonostante la soggezione che ti inculca la presenza ossessiva compulsiva dei simboli ebraici.

Poco dopo la mia lunga e infruttuosa passeggiata alla ricerca di letture di qualsiasi genere, ho incrociato Massimo col quale ci siamo scolati un paio di birre liberatorie, scambiandoci le nostre impressioni a quasi due mesi dal nostro arrivo. Condividiamo un certo pessismismo e senso di impotenza per una situazione ogni giorno più complessa, difficile da schematizzare e da districare. Il nostro fervente idealismo speranzoso degli inizi si scontra con questo surrealismo disarmante che respiriamo ogni giorno. Boh. Meglio agire da professionisti, come macchine che si limitano ad eseguire senza chiedere? Chissà, forse è l'unico modo per non farsi prendere troppo dallo sconforto pe chi lavora in questo campo. Diceva Massimo che al Festival del cinema di Venezia è stato presentato un film (o un documentario?) che smitizza la cooperazione internazionale: non solo idealisti, non solo don Chisciotte, non solo romantici sognatori attorniati da bambini neri o da indigeni che indossano vestiti colorati. Spesso, appunto, chi lavora nei progetti di sviluppo è solo un tecnico, un professionista che si limita a fare il proprio lavoro. Chissà, forse troppa sensibilità rischia di ritorcersi contro chi cerca di cambiare il mondo. A volte il carico di emozioni, di sofferenze, di ingiustizie, di impotenza è troppo. In questi giorni ci stiamo scambiando alcune impressioni con gli altri compagni del master sparsi in giro per il mondo (quelli europei o che comunque vivono in Europa da tanto, come me; gli stranieri del “sud del mondo”; infatti, sono quasi tutti in Europa com'è giusto che sia): dal Sudafrica all'Argentina, dalla Repubblica Centrafricana al Brasile, dall'Etiopia al Venezuela e via dicendo. Quelli che sono “sul campo”spesso devono scontrarsi con situazioni pesanti e ci vogliono i peli sullo stomaco per non abbattersi. Non è facile. Me ne sto rendendo conto.


MAHIRA

Mahira è la più giovane partecipante all'ultimo master in cooperazione allo sviluppo dell'Istituto Universitario di Studi Avanzati di Pavia. E' maltese, di origini asiatiche e, come Massimo e me, è qui in Palestina per svolgere la sua internship, presso un'ong italiana che qui ha un progetto con l'artigianato locale. E' arrivata pochi giorni fa, alle 3 di notte, e ha avuto un'ottima accoglienza dalle autorità israeliane: i poliziotti che l'hanno interrogata, addirittura ignoravano l'esistenza di Malta e una volta saputo che ora è nell'Unione Europea, uno di loro ha sbottato: “I hate Europe!” (odio l'Europa). La ciliegina sulla torta, però, è stata la reazione che hanno avuto quando ha risposto affermativamente alla domanda “Per caso tuo padre è musulmano?”. Tre ore di interrogatorio e perquisizioni. Ha battuto anche me e le mie due ore... Welcome to Israel.

Per qualche giorno Mahira è stata ospite di Massimo a Gerusalemme, fino a domenica quando il nostro romagnolo preferito è ritornato al lavoro ma con una trasferta a Jenin. Per cui Mahira è diventata mia ospite. Quello che non avevo capito -e ho scoperto solo la mattina di domenica- è cheavrebbe dovuto dormire qui da me. Evidentemente c'è stata un'incomprensione fra Massimo e me. Nessun problema, gli amici sono sempre i benvenuti e soprattutto non si lasciano mai per strada! Peccato solo che Abu Wahid, settimane prima, mi aveva avvisato che non posso assolutamente ospitare ragazze. “Tu da solo con una donna no, non si può, non possiamo ”. Eventualmente avrebbe provveduto a trovare un'altra sistemazione in casa sua per le eventuali amiche che vengono a trovarmi.(La mia dolce metà, quindi, può stare tranquilla e non soffrire di gelosia, he he he!). Madre esclusa, che ha il permesso e il sacrosanto diritto di stare qui.

Insomma: mi sono trovato improvvisamente impelagato in una situazione complicata alla quale la mia soluzione è stata di ospitare in ogni caso l'amica, con o senza permesso. Non ho voluto dire a Mahira del malinteso (se non a giochi fatti e strafatti) però abbiamo dovuto elaborare lo stesso una strategia che comprendeva una gran balla. O meglio: una semi-balla. Ovvero che la sua capo (responsabile dell'Ong italiana qui a Betlemme) doveva arrivare in nottata dall'Italia ma non siamo riusciti a metterci in contatto per cui, data l'ora tarda, abbiamo optato per l'ospitalità improvvisata qui.

Ecco, ovviamente mi sono sentito un po' poco onesto. Ironia della sorte, però, è andata proprio così! Nel senso che veramente la tizia dell'ong doveva arrivare domenica sera sul tardi ma ci sono stati dei problemi per cui sono arrivati alle 5 del mattino di lunedì e i telefoni non funzionavano! Insomma: altro che balla, abbiamo semplicemente previsto il futuro!

La torrida giornata di domenica (umidità, caldo, sole assassino), ancora ignari delle nostre capacità divinatorie, l'abbiamo trascorsa a fallire tentativi di ogni tipo. Non siamo riusciti a visitare la basilica della Natività e soprattutto la grotta perché la struttura traboccava di turisti. Non siamo riusciti a trovare uno straccio di paninaro o negozietto aperto perché per i musulmani la domenica è un giorno feriale ma siamo in Ramadan, e per i cristiani (che non osservano il Ramadan) èun giorno festivo ergo chiudono tutto. Non siamo riusciti ad andare a Jerico perché faceva troppo caldo e ormai era tardi. Non siamo riusciti ad andare all'Herodion (il sito archeologico dell'imponente residenza del re Erode) perché non c'erano autobus ma solo tassisti che volevano a tutti i costi pelarci con prezzi da usurai camorristi e nemmeno senza nasconderlo troppo. Non siamo riusciti a visitare nemmeno un museo perché erano tutti chiusi e strachiusi nonostante i cartelli con gli orari indicassero tutt'altro. Non siamo riusciti ad andare in un supermercato per prendere un paio di cose per la colazione perché quando mancano venti minuti alle 18 (cioè quando il muezzin dice che si può rompere il digiuno) la città incasinata diventa improvvisamente una ghost town a cui mancano solo i classici cespugli secchi che rotolano sulla strada polverosa come nei western. Non siamo riusciti a fotografare un gruppetto di bambini in groppa ad un cavallo scheletrico, perché mancava il flash. Non siamo riusciti a tornare subito a casa perché alcuni ragazzi al panificio qui vicino ci hanno chiesto un miliardo di volte di andare da loro, invitandoci a fare due chiacchiere. Ci hanno regalato pane, dei biscotti ripieni e dei grissini caserecci (tutto appena sfornato) e non ho capito perchè. So solo che volevano divertirsi un po' in maniera innocente, ma pure loro non sono riusciti in qualche cosa: non sono riusciti a non farsi sgamare. Nel senso che parlavano in arabo guardano Mahira. La quale però l'arabo lo capisce benissimo. Lei è stata al gioco finchè, all'ennesima risata, ho avverito l'unico ragazzo che capiva l'inglese: “Dì ai tuoi amici che non esagerino troppo. Lei l'arabo lo capisce perfettamente”. Immediatamente costui ha tradotto e le facce degli amici si sono improvvisamente congelate. Una scena stupenda!

La lista dei nostri fallimenti, fortunatamente sta per finire: non siamo riusciti a non farci scoprire da Abu Wahid. Abbiamo inscenato la nostra balla studiata in mattinata e lui, a sorpresa, è sembrato averla presa bene, tutto sommato. Peccato che mi abbia gelato il sanguen avvisandomi che da lì a tre ore avrei avuto una famiglia statunitense come coinquilini, fino a dicembre. Ovviamente sono rimasto tramortito: come sarebbe “una famiglia”? Pure statunitense? E soprattutto: fra tre ore? E fino a dicembre? E se non fossi stato d'accordo? E se anche lo fossi: un po' di preavviso no? Shock. La speranza era che si fosse trattato di uno scherzo.

L'ultima cosa che non siamo riusciti a fare è stata trovare un locale o qualsiasi cosa che servisse piatti palestinesi. Convinti, siamo entrati in una pizzeria. Evabbé: serata a birra palestinese e pizza (neanche male, peraltro) farcita di anneddoti dei quasi 8 mesi pavesi, con i retroscena delle notti passate tra l'osteria Sottovento in mezzo a cani e punk, Radio Out e le varie case di studenti che di sera si trasformavano in lupi mannari e alcolizzati. Boh: in 8 mesi non mi ero accorto quasi di nulla!

Ormai stanchi morti, anche per il fumo del narghilé, ci avvicinavamo a casa soltanto con una cosa in mente: che sia vero che quando apriremo la porta troveremo una famigliola yankee ad attenderci? Gli ultimi gradini li ho fatti quasi terrorizzato perché c'era una luce accesa. Fine delle speranze.

O no? Boh, non si capisce: nulla fa intendere che ci siano nuovi ospiti tranne la luce accesa in bagno e una delle due camere vuote che ora ha la porta aperta (e prima era chiusa a chiave). Mistero della fede? Semplice ripicca di Abu Wahid? O innocente scherzo? o... boh? Vabbé. Mahira ringrazia il cielo perchè almeno c'è un letto in più disponibile (aveva preteso a tutti i costi di dormire sul divano, nonostante la mia ferma contrarietà!), io resto a rimuginare.

Solo la mattina dopo scoprirò che non si trattava di una balla: la camera era aperta perché effettivamente la casa era stata visitata da queste persone e Abu Wahid si era dimenticato di chiuderla. Però erano passati solo per vedere, non per starci da subito. Beh, almeno la cosa è più ragionevole. Anche se avrei gradito il preavviso...


La mattina, mentre io ero in ufficio, Mahira è rimasta a casa cercando di capire la sorte dei responsabili della sua ong. Salvo poi scoprire che la nostra balla era l'esattissima verità!


OLANDESI

Anche in ufficio sono avvenuti dei cambiamenti. Lunedì ho accompagnato Noah e Lina a sud di Hebron per conoscere professori e preside di una delle nuove scuole in cui dal prossimo mese si inizierà il progetto dei “Giovani Negoziatori” (l'acronimo in inglese è YNP). Non mi ricordo se ne ho parlato in altri post: si tratta di un programma il cui scopo è quello di fornire agli studenti adolescenti palestinesi e ai loro professori, i mezzi per cercare di risolvere in maniera nonviolenta e pacifica i propri conflitti quotidiani, imparando a negoziare e dialogare affinché le soluzioni ai vari problemi accontentino tutti (“win-win”) e non solo alcuni (“win-lose”) o nessuno (“lose-lose”). IlYNP è nato ormai 8 anni fa e ha raggiunto quasi 180 scuole, guadagnandosi una grande popolarità tanto da essere richiesto anche nella vicina Giordania. Si tratta del progetto di punta del CCRR ed è finanziato da una ong olandese, War Child, che come dice il nome si occupa di bambini in sitazioni di guerra o comunque di conflitti armati.

Ne parlo perché il mio compito qui è quello di rinnovare profondamente il sistema di valuatazione proprio di questo progetto, affinché sia War Child (il donor) sia il CCRR capiscano quali siano i reali effetti prodotti. Insomma, in poche parole: vogliamo capire se il YNP ha cambiato oppure no la vita di sti benedetti ragazzini e in che modo.

Oggi, appunto, è venuta una delegazione di War Child a parlare del YNP. Non voglio rivelare i contenuti della riunione. Però le conclusioni sono state di sicuro una sorpresa per tutti noi. Non molto positiva, nonostante non si metta in discussione la partnershio né la validità del progetto.

Per quanto mi riguarda direttamente, devo dire che ho fatto il mio “debutto in società” nel senso che ho presentato ufficialmente la mia proposta di valutazione, con dei questionari nuovi di zecca e alcune idee che dovrebbero andare in contro ai bisogni del CCRR ma soprattutto, in questo momento, a quelli di War Child. I questionari sono piaciuti, hanno destato interesse e curiosità e forse ho contribuito a salvare la partita in calcio d'angolo. Vedremo domani, perché quelli di War Child ritorneranno anche per parlare con me, cosa che inizialmente non era prevista.



I
SRAELIANI IN PALESTINA?

Ancora un po' scossi dalla riunione di ieri - e già pronti per elaborare la contromossa necessaria – oggi abbiamo ricevuto la seconda importante visita. Anche questa volta si parla di valutazione (anzi, ad essere più precisi è un monitoraggio) e di nostri progetti. Anche in questo caso, il progetto in questione è di mediazione e negoziazione.

Il valutatore, Rafael, è spagnolo (così come il “capo” locale di War Child, Andrés) ed è un freelance ingaggiato dalla Commissione Europea per monitorare i progetti finanziati con gli euro delle vostre tasche. Rafael è il capo-missione del squadra sguinzagliata tra Israele e Palestina. L'incontro sarebbe riservato a Noah e Carola (che seguono il progetto da più vicino) ma ci è stato chiaramente detto che se vogliamo possiamo partecipare. “Posso vedere? Voglio fare come gli studenti di medicina che osservano da vicino i dottori che operano” è la mia richiesta. In effetti, vedere un valutatore in azione forse potrebbe darmi qualche spunto. Accordato.

Quando arriva, è accompagnato da due persone che credo essere suoi collaboratori. Solo dopo aver iniziato la riunione capisco che anche loro erano lì per essere valutati. Unica differenza: erano israeliani, ebrei.


Ebrei a Betlemme? Ma come cavolo hanno fatto per entrare? E' la prima volta che vedo degli israeliani ebrei qui, in Palestina, seduti accanto a palestinesi, scherzando e ridendo con loro.

Ancora stupefatto, prendo nota delle domande, degli atteggiamenti del valutatore, delle sue reazioni. Ha un modo di fare accomodante, mette le persone a loro agio tanto che si fa a gara per parlare, per fornire informazioni, raccontare anneddoti, dettagli, curiosità.

E un po' alla volta, la mia attenzione si concentra anche sul progetto. Che mi lascia a bocca aperta. Ora finalmente capisco concretamente quale sia la grande validità del CCRR e perché lo scorso anno vinse un premio internazionale per la propria attività.


Allora. Questo progetto (di cui non ricordo il nome!) è stato creato e portato avanti congiuntamente da due ong: il CCRR in Palestina e Neve Shalom in Israele. Il loro scopo è quello di creare due gruppi eterogenei rispettivamente di palestinesi e di israeliani, per un totale di 60 persone. Questi gruppi si impegnano a partecipare per circa 3 anni alle varie attività che, in grandi linee, sono le seguenti:

-degli incontri “interni” per conoscersi e organizzarsi in gruppi autogestiti di lavoro e discussione

-la scelta dei rappresentanti e dei “capi-negoziatori”

-3 incontri (in luogo neutrale, all'estero) fra rappresentanti palestinesi e israeliani, che devono negoziare sui temi trattati nei propri gruppi di lavoro.


Fin qui quasi nulla di nuovo, perché progetti che fanno incontrare israeliani e palestinesi ce ne sono. La novità – che mi ha stupito parecchio – è che non si cerca il dialogo e l'accordo bensì lo scontro, il conflitto. Detta così suona male. Cerco di spiegarmi.


Come ho scritto molti post fa, i palestinesi sono critici verso questo tipo di progetti e non hanno tutti i torti. Anche Carola (l'esperta tedesca in scienze sociali che lavora al CCRR) lo dice: c'è un modo di operare nella cooperazione internazionale che si chiama “do no harm” ovvero “non creare danno”. I progetti di dialogo, invece, spesso crearo un danno serio ai partecipanti. I palestinesi, infatti, quando scoprono personalmente l'esistenza di “israeliani buoni” restano scioccati e piombano quasi nella depressione: la loro reazione, infatti, è quella di mettere totalmente in dubbio tutto il loro vissuto: il “nemico” che ha occupato e depredato le loro terre improvvisamente ha una faccia diversa. Chi, allora, è il colpevole? D'altro canto, per gli israeliani c'è tutto da guadagnare: dimostrando di essere in grado di parlare con dei palestinesi e anche di farseli amici, l'israeliano dimostra a sé stesso e agli occhi di osservatori esterni di non essere in torto e, in qualche modo, si “pulisce” la coscienza. Però questo è uno degli ulteriori effetti perversi dell'occupazione.


Altri aspetti negativi dei tradizionali progetti l cui scopo è il dialogo sono:

-la scelta dei partecipanti: di solito vengono scelte persone con una certa attitudine, in maniera da facilitare il dialogo;

-la formazione: i partecipanti frequentano dei corsi, per imparare a negoziare e interagire;

-lo scopo finale: spesso è raggiungere un accordo che vada bene a tutti – onestamente mi sembrava la cosa più ovvia – nell'ottica di “volemose bbene, siamo tutti fratelli” anche quando la realtà (come in questo caso) è ben diversa.


La scelta metodologica di CCRR-Nevé Shalom è esattamente l'opposto:

-i partecipanti sono scelti in maniera da rappresentare l'intera società, includendo quindi anche soggetti politicamente radicali e addirittura estremisti, militanti politici ma anche semplici civili ignari, professionisti (come avvocati e giornalisti) e non, giovani e vecchi, uomini e donne, ecc. I gruppi, quindi, sono veramente eterogenei;

-non si fa formazione: i partecipanti ricevono solo supporto logistico. L'organizzazione dipende totalmente da loro;

-non c'è nessun accordo da raggiungere: l'unico scopo è di far incontrare gente non necessariamente convinta di volere la pace e di accettare la controparte.


Date le premesse, è legittimo credere che appena si incontrano, questi rappresentanti israeliani e palestinesi finiscono per scannarsi. E infatti è così! Ed è proprio questo lo scopo: si da la possibilità alle

due parti di insultarsi anche, di litigare, di scontrarsi. Ma almeno si vedono in faccia, ad armi pari (o meglio, senz'armi...), per la prima volta.


E allora? Cos'ha di tanto straordinario questo progetto? Proprio questo: che le persone si vedono, che portano il conflitto in un posto determinato. E così facendo, prima o poi scatta quel meccanismo per cui finisci per ascoltare quello che fino a due secondi prima volevi scaraventare fuori dalla finestra. E scopri che non avevi mai capito le ragioni che stavano dietro al suo comportamento.


Ci sono due storie che hanno raccontato stamattina, sia Noah sia i due israeliani di Nevé Shalom, che illustrano a fondo i cambiamenti profondi che questo progetto ha introdotto. I protagonisti non avrebbero mai e poi mai pensato di potersi comportare così nella loro vita.


Il primo è un giornalista israeliano, di estrema destra, militarista convinto. Quando decise di tentare l'esperienza odiava visceralmente i palestinesi e non risparmiava insulti contro i loro giornalisti che definiva degli incompetenti senza classse, dei terroristi che facevano solo la propaganda di Hamas. Insomma: per nulla conciliante. Al primo incontro israeliani-palestinesi per poco non scatenava una rissa: volavano insulti come “pazzi terroristi suicidi” e risposte come “colono sionista assassino”. Se ne andò sbattendo la porta. Per poi, dopo una mezz'oretta, tornare timidamente attratto dall'irresistibile curiosità del giornalista. Restò in silenzio per un po' e per la prima volta ascoltò cosa avevano da dire i giornalisti palestinesi. E, lentamente, scoprì che non aveva mai chiesto nulla a nessun palestinese: aveva vissuto e scritto solo in base a dei pregiudizi errati. Finalmente si decise a provare a parlare (e non ad insultare) un suo “collega” palestinese scoprendo che addirittura potevano diventare amici. Amicizia che è diventata anche collaborazione tra professionisti. E che una volta ha salvato la vita al palestinese intrappolato in una casa accerchiata da soldati israeliani pronti a farla saltare. Bastò una telefonata e il corpulento e influente israeliano arrivò sulla scena, minacciando i soldati e iniziando una lunga trattativa conclusasi nel migliore dei modi.


Il secondo è un palestinese (che ho conosciuto stamattina), militante in una formazione politica radicale, abitante del campo profughi di Deheishe ed ex-prigioniero politico. Uno che gli israeliani li voleva buttare a mare in un colpo solo. Arrivò al progetto quasi per caso ma decise di accettare la sfida, soprattutto per la curiosità di vedere se realmente era possibille che ci fossero degli israeliani non armati, non soldati, non coloni. Le sue posizioni radicali non le ha affatto perse ma, scontrandosi col “nemico” ha scoperto che alcuni erano anche degni di diventare amici.La sua cerchia lo bollò immediatamente come traditore, collaborazionista, svergognato. La moglie tuonò spesso contro di lui: “ma chi mai se lo sarebbe aspettato, proprio da te, ma ti rendi conto di ciò che fai?”. Sfidando la propria storia, la propria famiglia, i proprio amici e il proprio campo profughi, il militante palestinese un giorno portò l'amico israeliano a Betlemme, nella sua casa. Per nulla intimorito, l'israeliano quel giorno mantenne e difese le proprie posizioni. Con una grande differenza: stavolta ascoltava, anche, e vedeva ciò che in Israele non avrebbe mai potuto vedere. Ora sono vari gli amici del militante palestinese che gli chiedono di poter far parte pure loro del progetto.


Insomma: oggi ho avuto proprio un'overdose di energia. Noah mi ha anche proposto di partecipare al prossimo incontro (il terzo) fra palestinesi e israeliani in Giordania, sul Mar Morto, a novembre.

Improvvisamente mi è ritornata una forte carica positiva che pensavo di poter ritrovare difficilmente in questa pazza regione del mondo. Ora so che una speranza c'è ancora, che è reale. Che ancora vale la pena crederci.

Stamattina sono stato testimone di un piccolo miracolo.

Grazie Noah...



P.s.: mi sono accorto che i: palestinesi non hanno le idee molto chiare su cosa ci sia fuori dalla Palestina. Grazie tante, mi direbbe qualcuno: non possono uscire! E' vero, ma da qua a scambiarmi per tailandese (eh?!?), cubano (mah...), giapponese (cosaaaaa?!?!?!?!?!), statunitense (nnnnnnooooooooo!!!!! quello nnnnoooooo!!!!) o ebreo (ma dove cacchio l'avete vista la kippà?) ce ne passa!!

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