io al Muro del Pianto
Martedì seconda lezione di arabo. Arrivo un pelo in ritardo, anche perché ho perso una marea di tempo ad un incrocio cercando di passare. Purtroppo era l'ora di punta e il traffico era un po' congestionato. Il problema principale, però, è che per gli autisti palestinesi (e israeliani) il concetto di “strisce pedonali semplicemente non esiste. Ed esiste ancora meno che uno ci provi a passare reclamando la precedenza datagli dal codice della strada. In Italia, di solito, quando guido mi fermo e quando sono dalla parte del pedone, pretendo che la macchina si fermi altrimenti mando sonoramente e vistosamente affanculo chi guida. Qui non mi sembra il caso. Anche perché, probabilmente, non capirebbero. Per cui, semplicemente mi adeguo e aspetto il momento buono.
La lezione procede bene, appena mi siedo la nipote di Echlass mi porta un ottimo té aromatizzato alla salvia, che qui va alla grande (e a me piace parecchio). Lei mi spiega che la salvia si usa anche come digestivo o per curare il mal di stomaco. Verso la fine della lezione, mi chiede se voglio oppure no il caffé: si ricorda che la volta scorsa l'avevo rifiutato per motivi di “sonno”. Stavolta, però, accetto: so che per i Palestinesi, il caffé è più di una semplice bevanda, è quasi un rito (come per tanti italiani). Me lo portano in una tazzina minuscola che sorseggio con calma. Sorpresa: il sapore è identico (veramente!) a quello italiano. Però è caffé arabo, preparato alla maniera araba. Mmm, mi sa che allora sbaglio qualche cosa perché a me non viene così (ah!!! perché non mi son portato la moka! A proposito di rimpianti: mi pento anche di non essermi portato nemmeno la mia fedele grappetta, sigh sigh...).
Beh, di carne al fuoco ce n'è parecchia anche stavolta. Ma, visto che lei mi sembra parecchio predisposta alla conversazione, approfitto per un paio di domande. Che ovviamente sono sulla questione palestinese. Praticamente, ho scatenato un fiume in piena (ciò che volevo, e glielo dico).
Echlass è una donna disabile e ovviamente non lo nasconde. Ed è una palestinese rifugiata che vive in un campo profughi. Non prova odio ma nemmeno pensa sia minimamente immaginabile una riconciliazione con gli Israeliani. E' intransigente, non considera possibile il perdono per la Naqba (“disastro”, così i Palestinesi chiamano la nascita di Israele, cosa che innegabilmente è stata per loro) anche se non si farebbe alcun problema a parlare con persone ebree: sa perfettamente che ci sono ebrei e israeliani che cercano di trovare una soluzione per vivere in pace. Ce l'ha anche con i paesi occidentali e con la loro “cooperazione” che altro non è se non un modo per cercare di lavarsi la coscienza. Queste, tra l'altro, sono le parole che avrebbe detto in Germania ad un incontro con ong locali. E, a chi in quell'occasione accusava i palestinesi di prendersi un sacco di soldi dagli aiuti umanitari e internazionali, rispose caustica: “Se la Germania non avesse fatto ciò che ben sapete, ora non vi lamentereste per i soldi che buttate. Non prendetevela con me ma con il vostro governo, semmai. E e volete saperlo, state pagando i vostri errori del passato, e noi che non vi abbiamo mai chiesto nulla siamo solo le ultime vittime delle vostre scelte sbagliate”. (Ha ragione. Se ci pensiamo bene, ghetto, pogrom e olocausto sono tutte invenzioni europee, non certo arabe o musulmane).
Parla della quotidianità: nonè di cibo o di altri beni materiali che i palestinesi hanno bisogno: quelli ce li hanno. Non è di sedie a rotelle elettriche o di mancanza di barriere architettoniche. Spostarsi agevolmente in strade pulite non è “libertà”. Libertà è non vivere sotto occupazione. Finché c'è occupazione, è impossibile parlare di Pace.
La sua conclusione, molto obiettiva, è che “anche molti palestinesi, però, devono pulirsi dai loro sbagli prima di pretendere la pace”. Lezione magistrale.
Gerusalemme paranoica
In questi giorni ho fatto un po' il turista approfittando di una festività (l'ascensione al cielo di Maometto) e del venerdì.
Visto che finora non sono ancora andato a Gerusalemme – Al Quds (“la santa”, per gli arabi), colmo la grave lacuna. L'intenzione iniziale era di farla a piedi da Betlemme, partendo presto la mattina. Ovviamente non è così e mi muovo verso le 11 sotto un caldo che non vi racconto nemmeno. A piedi arrivo fino al Muro o quasi: i soldati israeliani mi fanno il gesto di girare. Fatto sta che lì passano solo le macchine, quelle con targa gialla cioé solo le macchine israeliane autorizzate. Apro parentesi: ci sono 4 tipi di targhe: gialle (macchine israeliane, che non sempre sono di cittadini israeliani. Possono anche essere di palestinesi con permessi); bianche con numeri verdi o verdi con numeri bianchi (palestinesi); bianche con numeri rossi (polizia palestinese); rosse con numeri bianchi (polizia e militari israeliani). E' sempre un casino spostarsi in macchina da una parte all'altra e la targa conta molto: agli israeliani è vietato entrare in West Bank o, meglio, nelle cosiddette “zone A” che, secondo il trattato di Oslo del '93, sono le aree urbane di: Ramallah, Betlemme, Gerico, Nablus, Jenin, Hebron, Gaza... (cioè le “riserve indiane” sotto esclusiva o quasi amministrazione palestinese). Per i palestinesi -oltre al divieto di andare a Gaza dalla Cisgiordania e viceversa- è spesso difficile spostarsi da una zona A all'altra. Non parliamo neanche di entrare in Israele.
Arrivo all'accesso “pedonale” del Muro e inizio il calvario (un tassista mi aveva detto che ci avrei messo parecchio): prima passo dentro una specie di corridoio coperto da una tettoia che, dopo un centinaio di metri, conduce ad uno di quegli “stornelli” di acciaio che ora si usano negli stadi di calcio per far passare uno alla volta i tifosi. Poi mi aspetta una serie di tunnel, cancelli, stornelli, controllo passaporti, metal detector, ecc. Tempo totale: circa una decina di minuti. Mi è quasi sembrato impossibile di essere riuscito a passare...
Premetto che, non sentendomi affatto al sicuro ad andare a Gerusalemme (sia per la recente “moda” delle ruspe assassine, sia perché vivo a Betlemme), ho pensato bene a come farmi trattare da turista per evitare problemi. Soluzione: maglia dei Pumas (nazionale argentina di rugby). Perché: beh, l'Argentina non ha particolari problemi né con Israele né con i Palestinesi (e mi gioco la carta della neutralità). Poi: ci sono un sacco di argentini ebrei e molti di questi ora vivono in Israele. Se per caso dovessi trovarmi in difficoltà, chissà che mi capiti di incontrare un soldato ebreo argentino...
Senza ricordarmi della mia scelta, mentre appoggio le mie cose nel nastro del metal detector, dal megafono una voce comincia a dire: “Argentina? Argentina? Boca Juniors o River Plate?”. Mi guardo intorno stupito cercandone inutilmente la fonte. La voce continua, rispondo: “Sì, Argentina. Y soy hincha de Boca. ¿quién habla?”. Continuo a guardarmi intorno, vedo due soldati che sorridono ma non sono loro. Chiedo gesticolando con le mani, con il classico gesto italiano, da dove arrivi la voce e uno dei soldati indica, col dito, la cabina davanti alla loro, mi volto e da un angolino un giovane soldato dall'aspetto etiope mi saluta con la mano. “Ah, sei tu. Ma sei argentino?” gli chiedo in spagnolo. Mi fa di no col dito. “E come hai imparato lo spagnolo?” ribatto. “Telenovelas”, risponde lui sorridendo.
Un altro militare israeliano simpatico...
Una volta fuori, prendo un piccolo autobus (un furgone, piuttosto). Dentro ci sono solo palestinesi e qualche turista tedesco e giapponese. Si parte.
Il Muro è un confine fra due mondi diversi per imposizione. Paesaggio, aspetto delle case, vegetazione sono esattamente gli stessi. Ma da questa parte c'è ricchezza, c'è ordine, c'è uno Stato. E tanti uomini vestiti di nero, con vistosi cappelli, barbe e riccioli ai lati del viso; uomini con la kippah in testa; donne con gonne lunghe ed un fazzoletto che raccoglie i capelli. Ecco l'altra grande differenza. Alle fermate sono separati, arabi e israeliani. Dal finestrino vedo la pulizia delle strade, la ricchezza delle case, i cartelli in ebraico e tante bandiere con la stella di Davide. Negli occhi, però, ho Betlemme, Nablus e il Muro. Non riesco a scindere le due cose, mi sembra surreale. Come essere passato attraverso un varco spazio-temporale ed essere entrato in un mondo parallelo. La cosa più strana è rendermi conto che veramente Israele è uno Stato fatto da ebrei per ebrei. E' decisamente uno stato ebreo, inutile negarlo. La cosa mi sembra strana. Provo a cercare un parallelo e immagino uno stato cattolico, solo per cattolici, dove per strada vedi principalmente preti, suore e chirichetti. No, assurdo. Non ci riesco.
Però Israele sarebbe la Terra Promessa per gli ebrei. Loro sono stati scacciati dai Romani nel 70 d.C. e hanno sempre mantenuto un fortissimo legame culturale e religioso e anche affettivo con la Palestina. Ok. Però dalla diaspora in poi sono sempre vissuti in altri paesi, in mezzo ad altri popoli, con altre culture e religioni. Non erano una “nazione” a parte. O sì? No, in teoria no: gli ebrei italiani sono Italiani di religione ebrea, non sono di nazionalità ebrea. Gli ebrei tedeschi perseguitati dal nazismo erano tedeschi, alcuni di religione ebraica altri con antiche origini ebraiche. E il loro choc principale fu proprio quello di essere considerati una cosa “diversa” dal resto del popolo tedesco col quale si identificavano. Anche gli argentini ebrei contestarono all'ex presidente Menem, all'epoca del sanguinoso attentato alla sede dell'AMIA (associazione ebraica di mutuo soccorso), di aver cercato di trattarli alla stregua di una “comunità nazionale” diversa da quella argentina. Quindi, reclamavano il fatto di essere argentini...
Ammetto di non riuscire a capire e vedo il rischio di impantanarmi in inutili ragionamenti intricati e inconcludenti. Però mi sembra assurdo pretendere di avere il diritto a controllare una terra che è appartenuta ad altre persone della tua religione (e non della tua nazionalità, se quanto detto prima vale ancora) 2000 anni fa. Duemila anni fa Costantinopoli era Romana. Se valesse lo stesso principio applicato da Israele, Roma dovrebbe occupare la Turchia e riprendersi Istanbul e mezza Europa. Oppure i tedeschi o il papa ricostituire il Sacro Romano Impero. Non regge. Boh, ci rinuncio. Comunque, secondo il mio parere c'è una contraddizione evidente. E' ora di piantarla anche con la classica scusa (purtroppo sentita troppo spesso anche a scuola) di “una Terra senza popolo per un Popolo senza terra”: e gli arabi (i palestinesi) dove li mettiamo? Forse c'è ancora chi crede che dal 70 d.C. al 1948 la Palestina sia rimasta deserta o che tutti gli ebrei dell'epoca sparirono dando vita alla “diaspora”.
Ok, basta. Il rischio di prenderla troppo alla leggera e semplificare troppo si sta concretizzando. Meglio chiudere qui.
Mentre vaneggio, l'autobus arriva sotto le Mura della città di Gerusalemme. Attorno a noi solo arabi, cartelli in arabo e venditori di cibo arabo. Ok, siamo nel quartiere arabo. Varco la soglia della grande Porta di Damasco: sono dentro. Sono a Gerusalemme. Gerusalemme! Gerusalemme? Quella Gerusalemme? Ma quanti anni ha Gerusalemme? Quanti secoli? Quanti Millenni? Oddio, sarà anche per il caldo, ma pensarci mi fa quasi girare la testa.
Il centro storico (la “Old City”) è diviso in tre quartieri: Ebreo (quello più “elegante”, che è stato rifatto a nuovo), Armeno e Arabo. Tutti gli scorci, però, portano addosso inequivocabilmente il segno della lunga e accurata amministrazione araba: porte, volte, scritte, cose che una volta dovevano essere fontane (credo), cartelli... Da qualche minuto i miei neuroni stavano formulando un paragone che è stato poi confermato nel momento in cui mi sono addentrato nel grande Suq (mercato coperto) che occupa quasi ogni centimetro delle vie del quartiere arabo: Gerusalemme non è poi tanto diversa da Venezia. La parte araba, almeno, emana quell'aria di antico fasto ormai decadente e un po' trasandato che è una caretteristica saliente della vecchia Serenissima. I vicoli caldi, tortuosi e i continui dislivelli rafforzano questa impressione.
Ancora immerso nei pensieri, vengo preso di soprassalto dal chiassoso passaggio di una banda di trombe, grancasse e cornamuse che richiama l'attenzione di decine di curiosi sia locali che turisti. Quando mi avvicino per capire, mi sorprendo nel vedere che la fanfara è composta solo da ragazzini. O meglio: è un nutrito manipolo di Boy-Scout palestinesi che, alla stregua dei bersaglieri, suona I diversi strumenti trottando. Ci ho messo un po' per capire che si trattavano veramente di scouts: ciò che mi traeva in inganno era la kefiah indossata al posto del basco o del cappellone. Per un attimo mi sono sembrati tanti piccoli Arafat con l'uniforme kaki, il fazzoletto al collo e l'immancabile giglio che ha fugato ogni ultimo dubbio rimasto.
Con l'intenzione di scambiare due parole col loro capo, seguo il corteo senza sapere dove. Dopo poco, un uomo mi chiede se voglio vedere la moschea di Al-Aqsa. “Perché? Si può?”. Pensavo che oggi, venerdì, sarebbe stato improponibile. “Ma sto tizio chi è”, penso. Sarà mica uno che mi ci vuole portare facendosi pagare? Mah. Un po' sospettoso resto sul vago ma, dopo qualche decina di metri, capisco cosa intendesse dire. Il corteo degli scout, scortato da 4-5 soldati israeliani armati, passa attraverso un varco che porta alla grande “Spianata delle Moschee”, portandosi dietro amici e parenti. Velolci come le fauci di un caimano, però, due poliziotti mi sbarrano la strada: “Only muslims today, tourists tomorrow”. Ovviamente: nella zona delle Moschee ci entrano solo i fedeli musulmani. Giusto, è la festa dell'ascensione di Maometto. Peccato che non sapessi che gli scout stessero andando proprio lì!
Evabbé. Giro i tacchi e, senza meta, mi ributto nella calca del Suq fra statuette in legno di ulivo, incensi, narghilé, piatti di ceramica, tappeti, kippah ricamate, kefiah colorate, preziosi ricami, vestiti femminili tradizionali, T-shirt multicolori, poster di calciatori o della moschea di Al-Aqsa, cartelli e scritte che ricordano i “martiri” palestinesi, veli, collane, bracciali, preziosi e gioielli, pentolame, verdure, foglie di salvia e di menta, paccottiglia varia, spezie e sacchi di legumi di ogni genere, dolcetti arabi, frutta secca, pane, ciambelle di sesamo, falafel, shawarma e kebab.
Ah, attenzione ai venditori: sono ovviamente furbissimi (soprattutto quelli di articoli per turisti). Ti chiamano e a volte ti risucchiano nel loro negozietto “solo per dare un'occhiata, non ti vendo niente”. Se, come no! Sì, sì. Bello, per carità. Sì sì, anche la kefiah. Sì, ho visto che il tessuto di questa è migliore. Cosa? 100 shekel? Ah (a Betlemme costa la metà...). No, è che non ho soldi. No, veramente. Sono un volontario, non un turista. Sì sì, bello, è vero, ma no grazie, non so dove metterlo...
Se poi, però, ti offrono caffé e dolcetti almeno un piattino glielo devi prendere, no? E infatti.
In giro, oltre a centinaia di turisti di ogni angolo del mondo, si vedono prevalentemente arabi palestinesi. E ogni tanto qualche ebreo ortodosso o qualche altro ebreo solo con la kippah sulla testa o donne ebree con le gonne lunghe. Forse mi sbaglio ma probabilmente questo è l'unico posto in tutta la regione dove musulmani, ebrei e cristiani vivono fianco a fianco. O almeno – vista la situazione – si sopportano. Ogni tanto, in qualche angolino più tranquillo, alcuni vecchi palestinesi seduti attorno ad un tavolino giocano a backgammon sorseggiando caffé arabo. Poco più in là, altri quattro o cinque fanno una chiacchierata disposti a semicerchio e aspirando grandi boccate di fumo aromatico da colorati narghilé. Una scena che mi ha inchiodato per qualche secondo è stata quando ho visto due uomini camminare fianco a fianco tra la folla: uno ebreo ortodosso con barba lunga e boccoli, l'altro un palestinese avvolto in una tunica bianca e una con addosso una kefiah bianca fermata dalla classica cordicella nera. Per un istante ho provato un emozione strana, quasi di gioia. Ho pure avuto la tentazione di fotografarli, pensando alla materializzazione del famoso video di “Rock the casbah” dei Clash. L'incantesimo è finito dopo poco, perché i due, che non si conoscevano, hanno proseguito per strade diverse.
Un centinaio di metri dopo sì che sono rimasto inchiodato sul serio sulle mie gambe. In mezzo alla folla, tra turisti e passanti, ancora in pieno quartiere arabo e in pieno giorno, due giovani vestiti di bianco e con la kippah camminavano con aria altezzosa guardandosi intorno. Sulla schiena, ognuno portava un fucile automatico. Nessun distintivo. Civili. Altro che civili: coloni. Ovunque: i coloni ebrei sono ovunque. Si prendono ciò che vogliono, con la forza, e nessuno è autorizzato a fiatare. Sì. Questa è la realtà, che piaccia o no. A me no.
Visto che sono nei paraggi, e che alla spianata delle moschee non c'è verso di entrare, perché non andare all'altra grande “attrazione” di Gerusalemme? Già: il “Muro del Pianto”, che però gli ebrei chiamano “Muro Occidentale”. E' l'unica cosa rimasta del secondo Tempio, dopo che l'imperatore Tito lo fece radere al suolo nel 70 d.C. Da quello che ho capito, in realtà per gli ebrei il Muro Occidentale non è un luogo sacro: è sacro il luogo su cui sorgeva il Tempio. Ma il Muro è la cosa materiale più vicina che sia rimasta. Per la religione ebraica, sulla collina su cui fu costruito il Tempio (e dove c'era l'Arca dell'Alleanza) ci sarebbe la “pietra della fondazione”, ovvero il luogo esatto in cui Dio avrebbe creato il mondo e la vita. Ora, al posto del Tempio distrutto dai Romani, c'è un altro luogo santo che loda lo stesso Dio ma in maniera un po' diversa: la “Spianata delle Moschee” (Cupola della Roccia -quella famosa, dorata- e Moschea di Al-Aqsa), 3° luogo santo per importanza dopo la Mecca e Medina.
Entrare alla zona del Muro non è per nulla facile: ancora controlli, metal detector, perquisizioni, tunnel, cancelli. Gente armata e sospettosa ovunque. Nemmeno un sorriso. Solo volti incazzosi, occhi sfidanti. Che aria tesa, pesante... La luce fuori dal tunnel mi chiama ad una piazza accesa dal sole, e sul lato sinistro finalmente, eccolo l'agognato Muro! Per fortuna c'è poca gente quindi resto a guardare con calma tutto il posto. Ah, giusto per continuare a puntualizzare e a fare il precisino fastidioso: dove ora c'è questo grande spiazzo, per vari secoli c'era un antico quartiere maghrebino. Che gli israeliani hanno totalmente demolito, tra le adirate proteste degli arabi che ci abitavano e dell'Unesco.
Prima di entrare sono forse l'unico o uno dei pochi (tra i turisti non ebrei presenti) a leggere le raccomandazioni per accedere alla zona del Muro: abbigliamento e atteggiamenti non offensivi o che possano turbare la sensibilità dei presenti, niente animali, ecc (e particolari restrizioni per i giorni di festa o il sabato). Dopo qualche passo, un ebreo ortodosso mi ferma e mi chiede qualche spiccolo come elemosina. Seee. Come no! Non faccio l'elemosina quando vado in chiesa da una vita (perché di soldi la Chiesa Cattolica ne ha anche troppi), figuriamoci se li do proprio a te che di soldi, dal tuo Stato, ne prendi già parecchi. Eh no, proprio no: i soldi per la religione no. Nemmeno nella dichiarazione dei redditi: il mio 8 per mille spetta di diritto ai Valdesi...
Prendo da un apposito contenitore la kippah di cartone per i non-ebrei e mi avvicino con circospezione a questo prodigioso muro. Sono pochi quelli che pregano, di più chi sorride e scatta foto. Resto un po' in silenzio e poi metto anch'io il mio bigliettino tra le fessure dei macigni che formano il Muro.
Tento l'ultima volta di entrare di staforo nella spianata delle Moschee ma desisto e, cercando di capire dove sono, esco dal quartiere arabo. Altre due cose voglio fare: scattare almeno una foto alla cupola dorata e andare al Santo Sepolcro. Per la prima, decido di andare fuori dalle mura e aggirare la città. Però ben presto mi imbatto in un cartello marrone (che di solito significa “zona di interesse turistico”) che indica l'ingresso delle “Solomon's Quarries”: le cave di Salomone. Si tratta di una cava sotterranea di pietra bianca, ricavata da una delle tante grotte della zona che, in questo caso, era sotto la città. Il nome è dovuto alla tradizione, secondo la quale fu da questa cava che il re Salomone estrasse la pietra necessaria per la costruzione del Tempio. Un particolare curioso è che da quando fu riscoperta, a cavallo tra i secoli XIX-XX, le cave di Salomone furono meta del “pellegrinaggio” di massoni di tutto il mondo. Secondo la massoneria, a quanto pare, il primo grande massone della storia fu proprio Salomone.
Conclusa la visita alla cava, continuo nell'opera di aggirare la città. Secondo la cartina, sulla mia sinistra c'è il Monte degli Ulivi. A dire il vero, di ulivi ce ne sono pochetti. Però la zona, così carica di significati per i cristiani, merita almeno una scampagnata. E così faccio, pensando anche che forse da lì potrò avere una panoramica migliore sulla città. Mentre inizio a salire, mi imbatto in una chiesa greca alla quale, però, do poca importanza. Poche decine di metri dopo, invece, il cartello “Getsemani” mi rapisce e mi porta dentro un chiostro gestito da frati francescani italiani. Lo spettacolo di questo posto sono gli ulivi: questi non sono secolari, sono addirittura millenari! Non ho mai visto degli ulivi così grossi in vita mia. I frati li proteggono con gelosia dalle mani avide dei turisti che, sono sicuro, ne strapperebbero volentieri qualche fogliolina da conservare come reliquia. Per i non cristiani il motivo è presto detto: è in questa zona (chissà se proprio tra gli stessi alberi) che Gesù, consapevole della sorte che lo attendeva, accettò la volontà di Dio (“sia fatta la tua volontà, non la mia”). E poi fu tradito da Giuda.
Non lontano da qui, infatti, c'è anche la “grotta del tradimento” e un altro edificio cristiano. Che è proprio la chiesetta greca che avevo snobbato. Si tratta della cosiddetta “grotta della vergine”. Non ho capito bene ma da quanto si dice vi sarebbe sepolta la Madonna. Che sia vero o no, non lo so e credo non lo sappia nessuno. Però, se mi ricordo qualche cosa del catechismo, Maria è salita in cielo e quindi non sarebbe né morta né sepolta. Non mi addentro nel fatto, trattare argomenti religiosi non è il mio mestiere. L'edificio, comunque, è molto suggestivo: piccolino, buio e all'apparenza molto antico, ha proprio il sapore dei vecchi monasteri ortodossi, raccolti e illuminati dalle luci fioche delle candele e ornati da decine di preziose icone e candelabri appesi al soffitto.
Mentre salgo piano piano, mi accorgo di una telefonata sul cellulare. Richiamo: è Superpagno! Ovvero Massimo, quello che è venuto qui con me. Pensavo fosse a Jenin e invece è proprio qui a Gerusalemme. Non solo: è sul Monte degli Ulivi. Ci mettiamo d'accordo e dopo una manciata di minuti vedo arrivare una macchina coperta di adesivi, con bandiere europee e sigle di ogni genere. Ah, è l'auto del lavoro! Con doppia assicurazione per permettere agli operatori umanitari di andare (quasi) indisturbati da una parte all'altra della Palestina, Gaza inclusa, e di Israele. In effetti, Superpagno ha già girato parecchio ed è stato pure a Gaza qualche giorno. A differenza mia, sta prevalentemente con gli “espatriati” ovvero il personale internazionale delle varie ong (molte italiane) e agenzie internazionali presenti a Gerusalemme. Est, per la precisione. La sua internship è basata soprattutto su aspetti economici (I progetti della sua ong sono quasi tutti di “cash for work”, ovvero lavoretti per dare una piccola somma a lavoratori disoccupati palestinesi). Parliamo del più e del meno e poi andiamo a farci un giro a vedere la “movida” di Gerusalemme: la “città nuova”, fuori dalle mura, non ha nulla di diverso da qualsiasi altra città europea o comunque da qualsiasi altra capitale in giro per il mondo. Ha un aspetto giulivo, allegro, spensierato e opulento. Certo, è stranissimo vedere quasi solo ebrei. Negli occhi di un vecchio che guarda sorridendo alcuni adolescenti rumorosi che ballano e cantano leggo la gioia e la soddisfazione di chi, forse, certe allegrie non le ha vissute. Penso che molti di loro sarebbero rinasti nei loro paesi di provenienza, se più di sessant'anni fa (e anche più di un secolo fa) l'Europa non avesse deciso di bollarli, di espellerli, di sterminarli. Ma allo stesso tempo penso che se in questo momento loro possono vivere in maniera dignitosa e spensierata, è proprio perchè ad altri (i Palestinesi) viene negato lo stesso diritto.
Camminando tra la gente di Gerusalemme, nonostante l'aria festosa della città, non mi sento meno proprio così “sicuro”. E non è certo per la presenza di ruspe o di persone con la giacca un po' troppo gonfia. Non so per quale motivo: sarà che ormai mi sono abituato a stare a Betlemme, sarà che in queste due settimane i palestinesi che ho conosciuto (e anche gli altri) mi hanno trattato coi guanti, accogliendomi con grande cordialità senza nemmeno sapere chi fossi e cosa ci facessi qui. Sarà che tutto questo mi piace e mi fa stare bene. Sarà. Fatto sta che camminare fra gli israeliani non mi mette altrettanto a mio agio. Commento solo ciò che vedo, non ciò che penso: ragazze e ragazzi armati che camminano col fucile a tracolla come se nulla fosse, occhi che mi puntano e mi squadrano, sguardi sospettosi e a tratti sfidanti.... No, mi dispiace ma questi israeliani sono proprio paranoici. Saranno anche felici e allegri, ma solo fra di loro. A chi fosse tentato dal dire “grazie tante, con tutti gli attentati che fanno i palestinesi”, rispondo: numeri alla mano, il conteggio di morti e feriti è totalmente sbilanciato da un lato e gli episodi di violenza sono spesso in una sola direzione. (Questo non giustifica che ogni tanto qualcuno si faccia saltare in aria in mezzo ai civili o spari razzi nei villaggi israeliani). Nonostante questo, nonostante l'occupazione, nonostante la libertà e la dignità negate, nonostante la violenza e l'apartheid che subiscono, nonostante la violazione continua e ripetuta dei diritti umani, nonostante le incursioni notturne dei militari nei campi profughi, nonostante le quotidiane umiliazioni, nonostante la pulizia etnica, nonostante il Muro, nonostante i checkpoint, nonostante tutto: i palestinesi non mi sono sembrati come gli israeliani. Non sto dicendo che siano migliori o peggiori: dico solo che non sono così paranoici...
Ah, il venerdì! Certo che questa settimana ho fatto proprio ben poco!
Intanto devo chiarire che il “fine settimana” è un tantino diverso da quello occidentale e anche da come l'ho descritto qualche giorno fa. Non dimentichiamoci che ci sono fedeli di tre religioni in questa terra: musulmani, ebrei e cristiani. Per le tre confessioni, il giorno festivo è diverso: venerdì per i primi, sabato per i secondi, domenica per gli ultimi. E le cose sono diverse a seconda di dove ci si trova. Qui in Palestina si riposa ovviamente il venerdì ma anche la domenica (i cristiani sono molti, soprattutto a Betlemme, sia Palestinesi che volontari stranieri). In Israele è il sabato il giorno festivo (proibito fare qualsiasi cosa, soprattutto nei quartieri ortodossi: chi passa in macchina rischia anche la lapidazione, e non scherzo). Nelle zone arabe è anche il venerdì. Ma spesso c'è un fine settimana lunghissimo che inizia il giovedì sera e finisce la sera della domenica. Per il personale straniero (ong e agenzie varie) si vede un po'. Io qui sto a casa venerdì e domenica. Massimo, ad esempio, venerdì e sabato. Oggi siamo a casa entrambi, quindi si va all'università a Betlemme a vedere un po' sti studenti di Cooperazione allo Sviluppo cosa combinano.
Rispetto agli altri posti visti finora, l'area dell'università è molto pulita, ordinata e tenuta in condizioni perfette. La struttura è quella dei campus statunitensi, con alberi, aiuole, fontane... Molto bella, veramente. Guardando in giro si scopre che è un'università cattolica salesiana (c'è anche una bandiera del Vaticano che non lascia spazio a dubbi). All'entrata chiedo del master e mi portano da un gruppetto di studenti, tutti sopra la trentina. Sì, sono loro. Scambio due chiacchiere con uno di loro che si sorprende quando gli dico che frequento lo stesso corso ma a Pavia. Abbiamo pure alcuni professori in comune: dal mitico Gianni Vaggi al suo braccio destro Missaglia. E poi altri.
Le discussioni delle tesi sono diverse rispetto alle nostre: mentre a noi -dopo aver finito l'internship- è richiesta una tesina con una presentazione in power point sull'esperienza realizzata, a loro si chiede una vera e propria tesi (ma non fanno l'internship). Che però devono veramente difendere dagli attacchi impietosi delle commissioni e persino del pubblico. Credo sarebbe il terrore di chiunque: resistere per circa mezz'ora ad ogni tipo di domanda (sempre fetente) e dimostrare la validità dei propri dati e argomenti. Però c'è una bella differenza: loro sono tutti molto più grandi di noi e soprattutto già lavorano nel settore della cooperazione. Quindi c'è una notevole differenza in quanto a esperienza e conoscenze acquisite. Eh già.
I lavori presentati sono proprio ben fatti e difesi altrettanto bene. In particolare ce n'è uno che suscita l'ammirazione dei più (non solo per i contenuti ma anche per l'esposizione molto professionale). Si tratta di uno studio sul progetto internazionale di collegamento Mar Rosso-Mar Morto, per la produzione di energia elettrica e di acqua potabile (previa adeguata desalinizzazione). Il progetto è interessante anche politicamente perché coinvolge Israele, Giordania e Palestinesi che svolgono ruoli quasi uguali (le decisioni, almeno, sono da prendere per consenso e non a maggioranza). Il progetto è importante anche perchè ci sarebbe un maggiore apporto idrico dato che – a causa dell'abuso e dell'egemonia israeliana sul bacino del Giordano – il cosiddetto “oro blu” scarseggia e di gestire in maniera più razionale e democratica il Giordano, gli israeliani non vogliono neanche sentirne parlare. Chissà se si riuscirà a fare (gli ostacoli morfologici non sono affatto trascurabili, e l'impatto ambientale potrebbe essere troppo alto)...
Soddisfatti per quanto visto e sentito, Superpagno e io ci apprestiamo a trascorrere una giornata di relax e svago da qualche parte qua vicino. Approfittiamo per salutare Andrea, ex studente del master di Pavia e ora responsabile dell'omonima sezione palestinese. Molto gentile e disponibile, e felice di vedere due “pavesi” da queste parti, ci consiglia un sacco di cose: dall'antichissimo monastero di Marsaba alle rovine dell'Herodion (la fortezza-reggia di Erode), da Jerico al Mar Morto. Mmm... Sì, Mar Morto potrebbe anche essere, già. Fatta. Si va al Mar Morto. E se ci avanza tempo anche a Jerico che tanto è da quelle parti.
In autostrada l'aria è bollente: addirittura, mettendo la mano fuori dal finestrino per cercare frescura, la si ritrae immediatamente a causa della temperatura fastidiosa. Sulle colline brulle e aride c'è ogni tanto qualche capanna di beduini, con asimi e dromedari al seguito. Dev'essere una vita dura, ma veramente dura la loro. La strada, intanto, continua a scendere finché arriviamo a –600 metri sul livello del mare. Nonostante il deserto, rigogliose piantagioni di palme da dattero e frutteti sono caratteristiche della zona. “Tecnologia avanzata israeliana” dirà qualcuno. Senza dubbio. Ma anche ladrocinio egoista dell'acqua del Giordano. Non è un caso che le terre palestinesi siano tutte aride, deserte e incolte e quelle israeliane (anche attorno agli insediamenti in mezzo al deserto!) siano tutte verdi.
Ci fermiamo al primo stabilimento balneare per chiedere i prezzi (non sappiamo se ci sia spiaggia libera qui vicino. Forse no). Lo faccio in inglese ma per due volte il tizio alla cassa mi chiede se parlo arabo. A questo punto comincio ad avere un dubbio: non è che gli israeliani mi trattano un po' da culo perché mi scambiano per palestinese? Comunque il posto è caro, via. Al secondo si risparmia una manciata di shekel. Massimo chiede scherzosamente se c'è qualche sconto. La cassiera risponde seccata che non ce ne sono. In realtà c'erano, per gli studenti... Un'altra volta umorismo uguale a zero. Evabbé. L'unico a sorridere è un ragazzotto che fuma il narghilé (lui lo chiama “hooba”) dietro il bancone di un kiosco. Ci chiama in ebraico e, non ottenendo risposta, prova in inglese. “E dai, vi sto chiamando ragazzi! Voglio solo fare due chiacchiere!”. (Ok, scusa, è che finora ci state trattando un po' maluccio). In effetti è molto disponibile e gentile e dice di chiamarlo se abbiamo bisogno di qualsiasi cosa. Ecco come ci si conquista i clienti!
Scendiamo nella depressione del Mar Morto, guardando le alture della Giordania sull'altra sponda, e scegliamo un ombrellone di paglia lontano dal chiasso e dagli altri turisti. Poi, messo il costume, ci tuffiamo in questo lago assurdo. Beh: la consistenza dell'acqua è surreale. Il mare è veramente così salato come lo si descrive di solito! L'acqua sembra uno sciroppo denso e pizzica la pelle. Nuotare è quasi impossibile nonché altamente sconsigliato. A dire il vero, è sconsigliato mettere la testa sott'acqua: l'enorme quantità di sale potrebbe saturarvi il cervello e seccarvi istantaneamente bocca e occhi! Purtoppo qualche goccia d'acqua mi va veramente su bocca e occhi: un'esperienza che avrei evitato volentieri... Beh: l'unica cosa da fare è lasciarsi andare. Ci pensa il Mar Morto a metterti sotto il culo una specie di canotto che ti spinge verso la superficie. Stare in piedi fermi in acqua è quasi impossibile: il sale ti sdraia. Sembra di stare sprofondati in poltrona. Addirittura c'è chi legge il giornale e chi prende il sole in acqua, anche sulla schiena. Affondare è impossibile, annegare pure.
L'altra grande attrazione del Mar Morto sono i suoi famosi fanghi che sembra siano una pozione magica per la pelle. Non tutti i fanghi, però, solo quelli neri. I bagnanti vanno a caccia della preziosa argilla poltigliosa mettendo le mani in acqua. Alcuni posti sono stati letteralmente scavati, tanto che cio sono delle buche. Provo anch'io ma senza successo. Praticamente il fondo del lago è un'enorme scodella di argilla fresca. Se ne tiri su un pezzo, si vedono chiaramente le varie stratificazioni con colori che vanno dal bianco al nero passando per il rossiccio. Alcune volte si tirano su anche dei sassi. No, non sono sassi: sono cristalli di sale. Ah sì, giusto. Vabbè, niente argilla nera. Andiamo a cazzeggiare sulle sdraio (dopo una dovuta doccia desalinizzante!). In pochi minuti, il “nostro” ombrellone è preso d'assalto da ebrei ortodossi con barbe e riccioli. E kippah in testa. Un gruppetto entra in acqua vestito (t-shirt e pantaloni corti), con tanto di occhiali e kippah. Alcuni entrano in acqua fumando e restano a mollo con la cicca tra le dita. Ben presto, una decina di ragazzi ci accerchia con le sedie e capiamo come debbano sentirsi i palestinesi. Ci hanno colonizzato l'ombrellone!
Più tardi si riparte col secondo giro di salamoia e fango. Solo che stavolta trovo il prezioso “paciòro” nero e pure in grandi quantità. Ne porto a riva un bel mucchio, suscitando l'invidia di alcuni bagnanti. Subito iniziamo a camuffarci da Diabolik: nel giro di qualche minuto siamo completamente neri, ricoperti da un viscido strato di fango. Dopo le foto di rito, restiamo fermi per qualche minuto per consentire alla preziosa sostanza di fare il suo effetto. Che in effetti c'è: lavata dal fango, la pelle è rimasta liscia e fresca, come rinnovata. Yeah, me ne porterò a casa un poco, he he!
Il resto pomeriggio, prima dell'improvviso tramonto, lo trascorriamo in panciolle all'ombra e in compagnia di un paio di bionde. Birre, bionde. Con un simile aspetto da turisti, era impossibile che ci scambiassero per altro. E infatti, una ragazza bruna dalla carnagione olivastra e costume giallo, si avvicina con un block notes e un tizio con macchina fotografica al seguito. Dopo aver capito che non eravamo israeliani, ci dice di essere una giornalista e che stava scrivendo un articolo sui frequentatori del Mar Morto. Ci chiede cosa ne pensiamo, come troviamo la spiaggia, se sappiamo dei fanghi, ecc. Massimo, riminese, ghigna quanto lei chiede della “spiaggia”. Eh, Rimini... Lei ghigna un po' meno quando sente che abitiamo uno a Betlemme e l'altro a Gerusalemme. Est. Il fotografo, appena dico “Bethlehem” fa “Ah...” e se ne va. L'intervista è praticamente finita. Vabbé, chissene.
Il sole inizia a calare, tempo di ripartire. Arriviamo a Gerusalemme che è già buio, lasciandoci da parte coloni, insediamenti e checkpoints. Un salto veloce dal “cristiano” per una piccola scorta di dolce nettare di luppolo e poi via, verso Betlemme. Cara Betlemme, ormai sei casa mia!
Facciamo un salto dal kebabbaro, col quale facciamo due chiacchiere scherzose. “Ah! Italia! Totti. Argentina? Maradona! Great football player!”, commenta mentre taglia la succulenta carne d'agnello e l'adagia sul pane caldo assieme alle verdure e alle salsine di sesamo e peperoncino. Buon appetito e benvenuti in Palestina! Ognuno qua ce lo dice: benvenuto, benvenuto in Palestina.
Facciamo tappa a casa mia, dopo aver fatto conoscere Massimo e Abu Wahid, oggi in forma strepitosa. Birra fresca e shawarma, cena deliziosa che consumiamo con contorno di due chiacchiere sui bei tempi andati del master, con le feste, le solite incomprensioni, le serate allegre e spensierate nonostante la statistica o la macroeconomia...
***
Sabato più che tranquillo. Nuova lezione di arabo, con le prime lettere. Inizio a riconoscere una parola ogni quarto d'ora, ma è già più di zero. Devo parlare di più, è questione di pratica. Mentre ero da Echlass, mi chiama Ibrahim: “Andiamo a Beit Sahour”. Ok, non so cosa ci sia ma ok. Presto detto: c'è un posto che si chiama “Alternative Information Center” o AIC. E' un'associazione fondata da israeliani e palestinesi, in Palestina, e che vuole dare informazioni vere e non distorte sull'occupazione e sulla realtà del conflitto. Qui hanno creato anche una specie di caffé, dove due volte alla settimana (martedì e sabato) ci sono degli eventi: conferenze, cineforum, mostre, ecc. Stasera c'è la testimonianza di un ex progioniero palestinese (accusato di militanza politica, senza però averne le prove) che racconta del progetto artistico elaborato dai carcerati. Arriviamo verso la fine ma non importa: sono ugualmente felice di vedere questo posto. Tra l'altro, I presenti sono tutti stranieri (lo si vede dalle facce: capelli biondi, occhi azzurri e pelle color latte non sono proprio normali qui!). E molti di questi italiani. Beh, quindi è vero che c'è una “piccola Italia” a Betlemme. Però, più che piccola Italia direi piccolo “Grandu-hato di Tos-hana”.
particolare del quartiere arabo
scout palestinesi a Gerusalemme
Mar Morto
Muro del Pianto
Ulivo millenario al Getsemani
Insegnamenti profughi
Martedì seconda lezione di arabo. Arrivo un pelo in ritardo, anche perché ho perso una marea di tempo ad un incrocio cercando di passare. Purtroppo era l'ora di punta e il traffico era un po' congestionato. Il problema principale, però, è che per gli autisti palestinesi (e israeliani) il concetto di “strisce pedonali semplicemente non esiste. Ed esiste ancora meno che uno ci provi a passare reclamando la precedenza datagli dal codice della strada. In Italia, di solito, quando guido mi fermo e quando sono dalla parte del pedone, pretendo che la macchina si fermi altrimenti mando sonoramente e vistosamente affanculo chi guida. Qui non mi sembra il caso. Anche perché, probabilmente, non capirebbero. Per cui, semplicemente mi adeguo e aspetto il momento buono.
La lezione procede bene, appena mi siedo la nipote di Echlass mi porta un ottimo té aromatizzato alla salvia, che qui va alla grande (e a me piace parecchio). Lei mi spiega che la salvia si usa anche come digestivo o per curare il mal di stomaco. Verso la fine della lezione, mi chiede se voglio oppure no il caffé: si ricorda che la volta scorsa l'avevo rifiutato per motivi di “sonno”. Stavolta, però, accetto: so che per i Palestinesi, il caffé è più di una semplice bevanda, è quasi un rito (come per tanti italiani). Me lo portano in una tazzina minuscola che sorseggio con calma. Sorpresa: il sapore è identico (veramente!) a quello italiano. Però è caffé arabo, preparato alla maniera araba. Mmm, mi sa che allora sbaglio qualche cosa perché a me non viene così (ah!!! perché non mi son portato la moka! A proposito di rimpianti: mi pento anche di non essermi portato nemmeno la mia fedele grappetta, sigh sigh...).
Beh, di carne al fuoco ce n'è parecchia anche stavolta. Ma, visto che lei mi sembra parecchio predisposta alla conversazione, approfitto per un paio di domande. Che ovviamente sono sulla questione palestinese. Praticamente, ho scatenato un fiume in piena (ciò che volevo, e glielo dico).
Echlass è una donna disabile e ovviamente non lo nasconde. Ed è una palestinese rifugiata che vive in un campo profughi. Non prova odio ma nemmeno pensa sia minimamente immaginabile una riconciliazione con gli Israeliani. E' intransigente, non considera possibile il perdono per la Naqba (“disastro”, così i Palestinesi chiamano la nascita di Israele, cosa che innegabilmente è stata per loro) anche se non si farebbe alcun problema a parlare con persone ebree: sa perfettamente che ci sono ebrei e israeliani che cercano di trovare una soluzione per vivere in pace. Ce l'ha anche con i paesi occidentali e con la loro “cooperazione” che altro non è se non un modo per cercare di lavarsi la coscienza. Queste, tra l'altro, sono le parole che avrebbe detto in Germania ad un incontro con ong locali. E, a chi in quell'occasione accusava i palestinesi di prendersi un sacco di soldi dagli aiuti umanitari e internazionali, rispose caustica: “Se la Germania non avesse fatto ciò che ben sapete, ora non vi lamentereste per i soldi che buttate. Non prendetevela con me ma con il vostro governo, semmai. E e volete saperlo, state pagando i vostri errori del passato, e noi che non vi abbiamo mai chiesto nulla siamo solo le ultime vittime delle vostre scelte sbagliate”. (Ha ragione. Se ci pensiamo bene, ghetto, pogrom e olocausto sono tutte invenzioni europee, non certo arabe o musulmane).
Parla della quotidianità: nonè di cibo o di altri beni materiali che i palestinesi hanno bisogno: quelli ce li hanno. Non è di sedie a rotelle elettriche o di mancanza di barriere architettoniche. Spostarsi agevolmente in strade pulite non è “libertà”. Libertà è non vivere sotto occupazione. Finché c'è occupazione, è impossibile parlare di Pace.
La sua conclusione, molto obiettiva, è che “anche molti palestinesi, però, devono pulirsi dai loro sbagli prima di pretendere la pace”. Lezione magistrale.
Gerusalemme paranoica
In questi giorni ho fatto un po' il turista approfittando di una festività (l'ascensione al cielo di Maometto) e del venerdì.
Visto che finora non sono ancora andato a Gerusalemme – Al Quds (“la santa”, per gli arabi), colmo la grave lacuna. L'intenzione iniziale era di farla a piedi da Betlemme, partendo presto la mattina. Ovviamente non è così e mi muovo verso le 11 sotto un caldo che non vi racconto nemmeno. A piedi arrivo fino al Muro o quasi: i soldati israeliani mi fanno il gesto di girare. Fatto sta che lì passano solo le macchine, quelle con targa gialla cioé solo le macchine israeliane autorizzate. Apro parentesi: ci sono 4 tipi di targhe: gialle (macchine israeliane, che non sempre sono di cittadini israeliani. Possono anche essere di palestinesi con permessi); bianche con numeri verdi o verdi con numeri bianchi (palestinesi); bianche con numeri rossi (polizia palestinese); rosse con numeri bianchi (polizia e militari israeliani). E' sempre un casino spostarsi in macchina da una parte all'altra e la targa conta molto: agli israeliani è vietato entrare in West Bank o, meglio, nelle cosiddette “zone A” che, secondo il trattato di Oslo del '93, sono le aree urbane di: Ramallah, Betlemme, Gerico, Nablus, Jenin, Hebron, Gaza... (cioè le “riserve indiane” sotto esclusiva o quasi amministrazione palestinese). Per i palestinesi -oltre al divieto di andare a Gaza dalla Cisgiordania e viceversa- è spesso difficile spostarsi da una zona A all'altra. Non parliamo neanche di entrare in Israele.
Arrivo all'accesso “pedonale” del Muro e inizio il calvario (un tassista mi aveva detto che ci avrei messo parecchio): prima passo dentro una specie di corridoio coperto da una tettoia che, dopo un centinaio di metri, conduce ad uno di quegli “stornelli” di acciaio che ora si usano negli stadi di calcio per far passare uno alla volta i tifosi. Poi mi aspetta una serie di tunnel, cancelli, stornelli, controllo passaporti, metal detector, ecc. Tempo totale: circa una decina di minuti. Mi è quasi sembrato impossibile di essere riuscito a passare...
Premetto che, non sentendomi affatto al sicuro ad andare a Gerusalemme (sia per la recente “moda” delle ruspe assassine, sia perché vivo a Betlemme), ho pensato bene a come farmi trattare da turista per evitare problemi. Soluzione: maglia dei Pumas (nazionale argentina di rugby). Perché: beh, l'Argentina non ha particolari problemi né con Israele né con i Palestinesi (e mi gioco la carta della neutralità). Poi: ci sono un sacco di argentini ebrei e molti di questi ora vivono in Israele. Se per caso dovessi trovarmi in difficoltà, chissà che mi capiti di incontrare un soldato ebreo argentino...
Senza ricordarmi della mia scelta, mentre appoggio le mie cose nel nastro del metal detector, dal megafono una voce comincia a dire: “Argentina? Argentina? Boca Juniors o River Plate?”. Mi guardo intorno stupito cercandone inutilmente la fonte. La voce continua, rispondo: “Sì, Argentina. Y soy hincha de Boca. ¿quién habla?”. Continuo a guardarmi intorno, vedo due soldati che sorridono ma non sono loro. Chiedo gesticolando con le mani, con il classico gesto italiano, da dove arrivi la voce e uno dei soldati indica, col dito, la cabina davanti alla loro, mi volto e da un angolino un giovane soldato dall'aspetto etiope mi saluta con la mano. “Ah, sei tu. Ma sei argentino?” gli chiedo in spagnolo. Mi fa di no col dito. “E come hai imparato lo spagnolo?” ribatto. “Telenovelas”, risponde lui sorridendo.
Un altro militare israeliano simpatico...
Una volta fuori, prendo un piccolo autobus (un furgone, piuttosto). Dentro ci sono solo palestinesi e qualche turista tedesco e giapponese. Si parte.
Il Muro è un confine fra due mondi diversi per imposizione. Paesaggio, aspetto delle case, vegetazione sono esattamente gli stessi. Ma da questa parte c'è ricchezza, c'è ordine, c'è uno Stato. E tanti uomini vestiti di nero, con vistosi cappelli, barbe e riccioli ai lati del viso; uomini con la kippah in testa; donne con gonne lunghe ed un fazzoletto che raccoglie i capelli. Ecco l'altra grande differenza. Alle fermate sono separati, arabi e israeliani. Dal finestrino vedo la pulizia delle strade, la ricchezza delle case, i cartelli in ebraico e tante bandiere con la stella di Davide. Negli occhi, però, ho Betlemme, Nablus e il Muro. Non riesco a scindere le due cose, mi sembra surreale. Come essere passato attraverso un varco spazio-temporale ed essere entrato in un mondo parallelo. La cosa più strana è rendermi conto che veramente Israele è uno Stato fatto da ebrei per ebrei. E' decisamente uno stato ebreo, inutile negarlo. La cosa mi sembra strana. Provo a cercare un parallelo e immagino uno stato cattolico, solo per cattolici, dove per strada vedi principalmente preti, suore e chirichetti. No, assurdo. Non ci riesco.
Però Israele sarebbe la Terra Promessa per gli ebrei. Loro sono stati scacciati dai Romani nel 70 d.C. e hanno sempre mantenuto un fortissimo legame culturale e religioso e anche affettivo con la Palestina. Ok. Però dalla diaspora in poi sono sempre vissuti in altri paesi, in mezzo ad altri popoli, con altre culture e religioni. Non erano una “nazione” a parte. O sì? No, in teoria no: gli ebrei italiani sono Italiani di religione ebrea, non sono di nazionalità ebrea. Gli ebrei tedeschi perseguitati dal nazismo erano tedeschi, alcuni di religione ebraica altri con antiche origini ebraiche. E il loro choc principale fu proprio quello di essere considerati una cosa “diversa” dal resto del popolo tedesco col quale si identificavano. Anche gli argentini ebrei contestarono all'ex presidente Menem, all'epoca del sanguinoso attentato alla sede dell'AMIA (associazione ebraica di mutuo soccorso), di aver cercato di trattarli alla stregua di una “comunità nazionale” diversa da quella argentina. Quindi, reclamavano il fatto di essere argentini...
Ammetto di non riuscire a capire e vedo il rischio di impantanarmi in inutili ragionamenti intricati e inconcludenti. Però mi sembra assurdo pretendere di avere il diritto a controllare una terra che è appartenuta ad altre persone della tua religione (e non della tua nazionalità, se quanto detto prima vale ancora) 2000 anni fa. Duemila anni fa Costantinopoli era Romana. Se valesse lo stesso principio applicato da Israele, Roma dovrebbe occupare la Turchia e riprendersi Istanbul e mezza Europa. Oppure i tedeschi o il papa ricostituire il Sacro Romano Impero. Non regge. Boh, ci rinuncio. Comunque, secondo il mio parere c'è una contraddizione evidente. E' ora di piantarla anche con la classica scusa (purtroppo sentita troppo spesso anche a scuola) di “una Terra senza popolo per un Popolo senza terra”: e gli arabi (i palestinesi) dove li mettiamo? Forse c'è ancora chi crede che dal 70 d.C. al 1948 la Palestina sia rimasta deserta o che tutti gli ebrei dell'epoca sparirono dando vita alla “diaspora”.
Ok, basta. Il rischio di prenderla troppo alla leggera e semplificare troppo si sta concretizzando. Meglio chiudere qui.
Mentre vaneggio, l'autobus arriva sotto le Mura della città di Gerusalemme. Attorno a noi solo arabi, cartelli in arabo e venditori di cibo arabo. Ok, siamo nel quartiere arabo. Varco la soglia della grande Porta di Damasco: sono dentro. Sono a Gerusalemme. Gerusalemme! Gerusalemme? Quella Gerusalemme? Ma quanti anni ha Gerusalemme? Quanti secoli? Quanti Millenni? Oddio, sarà anche per il caldo, ma pensarci mi fa quasi girare la testa.
Il centro storico (la “Old City”) è diviso in tre quartieri: Ebreo (quello più “elegante”, che è stato rifatto a nuovo), Armeno e Arabo. Tutti gli scorci, però, portano addosso inequivocabilmente il segno della lunga e accurata amministrazione araba: porte, volte, scritte, cose che una volta dovevano essere fontane (credo), cartelli... Da qualche minuto i miei neuroni stavano formulando un paragone che è stato poi confermato nel momento in cui mi sono addentrato nel grande Suq (mercato coperto) che occupa quasi ogni centimetro delle vie del quartiere arabo: Gerusalemme non è poi tanto diversa da Venezia. La parte araba, almeno, emana quell'aria di antico fasto ormai decadente e un po' trasandato che è una caretteristica saliente della vecchia Serenissima. I vicoli caldi, tortuosi e i continui dislivelli rafforzano questa impressione.
Ancora immerso nei pensieri, vengo preso di soprassalto dal chiassoso passaggio di una banda di trombe, grancasse e cornamuse che richiama l'attenzione di decine di curiosi sia locali che turisti. Quando mi avvicino per capire, mi sorprendo nel vedere che la fanfara è composta solo da ragazzini. O meglio: è un nutrito manipolo di Boy-Scout palestinesi che, alla stregua dei bersaglieri, suona I diversi strumenti trottando. Ci ho messo un po' per capire che si trattavano veramente di scouts: ciò che mi traeva in inganno era la kefiah indossata al posto del basco o del cappellone. Per un attimo mi sono sembrati tanti piccoli Arafat con l'uniforme kaki, il fazzoletto al collo e l'immancabile giglio che ha fugato ogni ultimo dubbio rimasto.
Con l'intenzione di scambiare due parole col loro capo, seguo il corteo senza sapere dove. Dopo poco, un uomo mi chiede se voglio vedere la moschea di Al-Aqsa. “Perché? Si può?”. Pensavo che oggi, venerdì, sarebbe stato improponibile. “Ma sto tizio chi è”, penso. Sarà mica uno che mi ci vuole portare facendosi pagare? Mah. Un po' sospettoso resto sul vago ma, dopo qualche decina di metri, capisco cosa intendesse dire. Il corteo degli scout, scortato da 4-5 soldati israeliani armati, passa attraverso un varco che porta alla grande “Spianata delle Moschee”, portandosi dietro amici e parenti. Velolci come le fauci di un caimano, però, due poliziotti mi sbarrano la strada: “Only muslims today, tourists tomorrow”. Ovviamente: nella zona delle Moschee ci entrano solo i fedeli musulmani. Giusto, è la festa dell'ascensione di Maometto. Peccato che non sapessi che gli scout stessero andando proprio lì!
Evabbé. Giro i tacchi e, senza meta, mi ributto nella calca del Suq fra statuette in legno di ulivo, incensi, narghilé, piatti di ceramica, tappeti, kippah ricamate, kefiah colorate, preziosi ricami, vestiti femminili tradizionali, T-shirt multicolori, poster di calciatori o della moschea di Al-Aqsa, cartelli e scritte che ricordano i “martiri” palestinesi, veli, collane, bracciali, preziosi e gioielli, pentolame, verdure, foglie di salvia e di menta, paccottiglia varia, spezie e sacchi di legumi di ogni genere, dolcetti arabi, frutta secca, pane, ciambelle di sesamo, falafel, shawarma e kebab.
Ah, attenzione ai venditori: sono ovviamente furbissimi (soprattutto quelli di articoli per turisti). Ti chiamano e a volte ti risucchiano nel loro negozietto “solo per dare un'occhiata, non ti vendo niente”. Se, come no! Sì, sì. Bello, per carità. Sì sì, anche la kefiah. Sì, ho visto che il tessuto di questa è migliore. Cosa? 100 shekel? Ah (a Betlemme costa la metà...). No, è che non ho soldi. No, veramente. Sono un volontario, non un turista. Sì sì, bello, è vero, ma no grazie, non so dove metterlo...
Se poi, però, ti offrono caffé e dolcetti almeno un piattino glielo devi prendere, no? E infatti.
In giro, oltre a centinaia di turisti di ogni angolo del mondo, si vedono prevalentemente arabi palestinesi. E ogni tanto qualche ebreo ortodosso o qualche altro ebreo solo con la kippah sulla testa o donne ebree con le gonne lunghe. Forse mi sbaglio ma probabilmente questo è l'unico posto in tutta la regione dove musulmani, ebrei e cristiani vivono fianco a fianco. O almeno – vista la situazione – si sopportano. Ogni tanto, in qualche angolino più tranquillo, alcuni vecchi palestinesi seduti attorno ad un tavolino giocano a backgammon sorseggiando caffé arabo. Poco più in là, altri quattro o cinque fanno una chiacchierata disposti a semicerchio e aspirando grandi boccate di fumo aromatico da colorati narghilé. Una scena che mi ha inchiodato per qualche secondo è stata quando ho visto due uomini camminare fianco a fianco tra la folla: uno ebreo ortodosso con barba lunga e boccoli, l'altro un palestinese avvolto in una tunica bianca e una con addosso una kefiah bianca fermata dalla classica cordicella nera. Per un istante ho provato un emozione strana, quasi di gioia. Ho pure avuto la tentazione di fotografarli, pensando alla materializzazione del famoso video di “Rock the casbah” dei Clash. L'incantesimo è finito dopo poco, perché i due, che non si conoscevano, hanno proseguito per strade diverse.
Un centinaio di metri dopo sì che sono rimasto inchiodato sul serio sulle mie gambe. In mezzo alla folla, tra turisti e passanti, ancora in pieno quartiere arabo e in pieno giorno, due giovani vestiti di bianco e con la kippah camminavano con aria altezzosa guardandosi intorno. Sulla schiena, ognuno portava un fucile automatico. Nessun distintivo. Civili. Altro che civili: coloni. Ovunque: i coloni ebrei sono ovunque. Si prendono ciò che vogliono, con la forza, e nessuno è autorizzato a fiatare. Sì. Questa è la realtà, che piaccia o no. A me no.
Visto che sono nei paraggi, e che alla spianata delle moschee non c'è verso di entrare, perché non andare all'altra grande “attrazione” di Gerusalemme? Già: il “Muro del Pianto”, che però gli ebrei chiamano “Muro Occidentale”. E' l'unica cosa rimasta del secondo Tempio, dopo che l'imperatore Tito lo fece radere al suolo nel 70 d.C. Da quello che ho capito, in realtà per gli ebrei il Muro Occidentale non è un luogo sacro: è sacro il luogo su cui sorgeva il Tempio. Ma il Muro è la cosa materiale più vicina che sia rimasta. Per la religione ebraica, sulla collina su cui fu costruito il Tempio (e dove c'era l'Arca dell'Alleanza) ci sarebbe la “pietra della fondazione”, ovvero il luogo esatto in cui Dio avrebbe creato il mondo e la vita. Ora, al posto del Tempio distrutto dai Romani, c'è un altro luogo santo che loda lo stesso Dio ma in maniera un po' diversa: la “Spianata delle Moschee” (Cupola della Roccia -quella famosa, dorata- e Moschea di Al-Aqsa), 3° luogo santo per importanza dopo la Mecca e Medina.
Entrare alla zona del Muro non è per nulla facile: ancora controlli, metal detector, perquisizioni, tunnel, cancelli. Gente armata e sospettosa ovunque. Nemmeno un sorriso. Solo volti incazzosi, occhi sfidanti. Che aria tesa, pesante... La luce fuori dal tunnel mi chiama ad una piazza accesa dal sole, e sul lato sinistro finalmente, eccolo l'agognato Muro! Per fortuna c'è poca gente quindi resto a guardare con calma tutto il posto. Ah, giusto per continuare a puntualizzare e a fare il precisino fastidioso: dove ora c'è questo grande spiazzo, per vari secoli c'era un antico quartiere maghrebino. Che gli israeliani hanno totalmente demolito, tra le adirate proteste degli arabi che ci abitavano e dell'Unesco.
Prima di entrare sono forse l'unico o uno dei pochi (tra i turisti non ebrei presenti) a leggere le raccomandazioni per accedere alla zona del Muro: abbigliamento e atteggiamenti non offensivi o che possano turbare la sensibilità dei presenti, niente animali, ecc (e particolari restrizioni per i giorni di festa o il sabato). Dopo qualche passo, un ebreo ortodosso mi ferma e mi chiede qualche spiccolo come elemosina. Seee. Come no! Non faccio l'elemosina quando vado in chiesa da una vita (perché di soldi la Chiesa Cattolica ne ha anche troppi), figuriamoci se li do proprio a te che di soldi, dal tuo Stato, ne prendi già parecchi. Eh no, proprio no: i soldi per la religione no. Nemmeno nella dichiarazione dei redditi: il mio 8 per mille spetta di diritto ai Valdesi...
Prendo da un apposito contenitore la kippah di cartone per i non-ebrei e mi avvicino con circospezione a questo prodigioso muro. Sono pochi quelli che pregano, di più chi sorride e scatta foto. Resto un po' in silenzio e poi metto anch'io il mio bigliettino tra le fessure dei macigni che formano il Muro.
Tento l'ultima volta di entrare di staforo nella spianata delle Moschee ma desisto e, cercando di capire dove sono, esco dal quartiere arabo. Altre due cose voglio fare: scattare almeno una foto alla cupola dorata e andare al Santo Sepolcro. Per la prima, decido di andare fuori dalle mura e aggirare la città. Però ben presto mi imbatto in un cartello marrone (che di solito significa “zona di interesse turistico”) che indica l'ingresso delle “Solomon's Quarries”: le cave di Salomone. Si tratta di una cava sotterranea di pietra bianca, ricavata da una delle tante grotte della zona che, in questo caso, era sotto la città. Il nome è dovuto alla tradizione, secondo la quale fu da questa cava che il re Salomone estrasse la pietra necessaria per la costruzione del Tempio. Un particolare curioso è che da quando fu riscoperta, a cavallo tra i secoli XIX-XX, le cave di Salomone furono meta del “pellegrinaggio” di massoni di tutto il mondo. Secondo la massoneria, a quanto pare, il primo grande massone della storia fu proprio Salomone.
Conclusa la visita alla cava, continuo nell'opera di aggirare la città. Secondo la cartina, sulla mia sinistra c'è il Monte degli Ulivi. A dire il vero, di ulivi ce ne sono pochetti. Però la zona, così carica di significati per i cristiani, merita almeno una scampagnata. E così faccio, pensando anche che forse da lì potrò avere una panoramica migliore sulla città. Mentre inizio a salire, mi imbatto in una chiesa greca alla quale, però, do poca importanza. Poche decine di metri dopo, invece, il cartello “Getsemani” mi rapisce e mi porta dentro un chiostro gestito da frati francescani italiani. Lo spettacolo di questo posto sono gli ulivi: questi non sono secolari, sono addirittura millenari! Non ho mai visto degli ulivi così grossi in vita mia. I frati li proteggono con gelosia dalle mani avide dei turisti che, sono sicuro, ne strapperebbero volentieri qualche fogliolina da conservare come reliquia. Per i non cristiani il motivo è presto detto: è in questa zona (chissà se proprio tra gli stessi alberi) che Gesù, consapevole della sorte che lo attendeva, accettò la volontà di Dio (“sia fatta la tua volontà, non la mia”). E poi fu tradito da Giuda.
Non lontano da qui, infatti, c'è anche la “grotta del tradimento” e un altro edificio cristiano. Che è proprio la chiesetta greca che avevo snobbato. Si tratta della cosiddetta “grotta della vergine”. Non ho capito bene ma da quanto si dice vi sarebbe sepolta la Madonna. Che sia vero o no, non lo so e credo non lo sappia nessuno. Però, se mi ricordo qualche cosa del catechismo, Maria è salita in cielo e quindi non sarebbe né morta né sepolta. Non mi addentro nel fatto, trattare argomenti religiosi non è il mio mestiere. L'edificio, comunque, è molto suggestivo: piccolino, buio e all'apparenza molto antico, ha proprio il sapore dei vecchi monasteri ortodossi, raccolti e illuminati dalle luci fioche delle candele e ornati da decine di preziose icone e candelabri appesi al soffitto.
Mentre salgo piano piano, mi accorgo di una telefonata sul cellulare. Richiamo: è Superpagno! Ovvero Massimo, quello che è venuto qui con me. Pensavo fosse a Jenin e invece è proprio qui a Gerusalemme. Non solo: è sul Monte degli Ulivi. Ci mettiamo d'accordo e dopo una manciata di minuti vedo arrivare una macchina coperta di adesivi, con bandiere europee e sigle di ogni genere. Ah, è l'auto del lavoro! Con doppia assicurazione per permettere agli operatori umanitari di andare (quasi) indisturbati da una parte all'altra della Palestina, Gaza inclusa, e di Israele. In effetti, Superpagno ha già girato parecchio ed è stato pure a Gaza qualche giorno. A differenza mia, sta prevalentemente con gli “espatriati” ovvero il personale internazionale delle varie ong (molte italiane) e agenzie internazionali presenti a Gerusalemme. Est, per la precisione. La sua internship è basata soprattutto su aspetti economici (I progetti della sua ong sono quasi tutti di “cash for work”, ovvero lavoretti per dare una piccola somma a lavoratori disoccupati palestinesi). Parliamo del più e del meno e poi andiamo a farci un giro a vedere la “movida” di Gerusalemme: la “città nuova”, fuori dalle mura, non ha nulla di diverso da qualsiasi altra città europea o comunque da qualsiasi altra capitale in giro per il mondo. Ha un aspetto giulivo, allegro, spensierato e opulento. Certo, è stranissimo vedere quasi solo ebrei. Negli occhi di un vecchio che guarda sorridendo alcuni adolescenti rumorosi che ballano e cantano leggo la gioia e la soddisfazione di chi, forse, certe allegrie non le ha vissute. Penso che molti di loro sarebbero rinasti nei loro paesi di provenienza, se più di sessant'anni fa (e anche più di un secolo fa) l'Europa non avesse deciso di bollarli, di espellerli, di sterminarli. Ma allo stesso tempo penso che se in questo momento loro possono vivere in maniera dignitosa e spensierata, è proprio perchè ad altri (i Palestinesi) viene negato lo stesso diritto.
Camminando tra la gente di Gerusalemme, nonostante l'aria festosa della città, non mi sento meno proprio così “sicuro”. E non è certo per la presenza di ruspe o di persone con la giacca un po' troppo gonfia. Non so per quale motivo: sarà che ormai mi sono abituato a stare a Betlemme, sarà che in queste due settimane i palestinesi che ho conosciuto (e anche gli altri) mi hanno trattato coi guanti, accogliendomi con grande cordialità senza nemmeno sapere chi fossi e cosa ci facessi qui. Sarà che tutto questo mi piace e mi fa stare bene. Sarà. Fatto sta che camminare fra gli israeliani non mi mette altrettanto a mio agio. Commento solo ciò che vedo, non ciò che penso: ragazze e ragazzi armati che camminano col fucile a tracolla come se nulla fosse, occhi che mi puntano e mi squadrano, sguardi sospettosi e a tratti sfidanti.... No, mi dispiace ma questi israeliani sono proprio paranoici. Saranno anche felici e allegri, ma solo fra di loro. A chi fosse tentato dal dire “grazie tante, con tutti gli attentati che fanno i palestinesi”, rispondo: numeri alla mano, il conteggio di morti e feriti è totalmente sbilanciato da un lato e gli episodi di violenza sono spesso in una sola direzione. (Questo non giustifica che ogni tanto qualcuno si faccia saltare in aria in mezzo ai civili o spari razzi nei villaggi israeliani). Nonostante questo, nonostante l'occupazione, nonostante la libertà e la dignità negate, nonostante la violenza e l'apartheid che subiscono, nonostante la violazione continua e ripetuta dei diritti umani, nonostante le incursioni notturne dei militari nei campi profughi, nonostante le quotidiane umiliazioni, nonostante la pulizia etnica, nonostante il Muro, nonostante i checkpoint, nonostante tutto: i palestinesi non mi sono sembrati come gli israeliani. Non sto dicendo che siano migliori o peggiori: dico solo che non sono così paranoici...
Cooperanti sviluppanti
Il giorno dopo la visita a Gerusalemme c'è un fatto importante da segnalare. Almeno per Massimo e me. All'università di Betlemme ci sono le discussioni delle tesi degli studenti del master in Cooperazione allo Sviluppo. Coincidenza? No, tutt'altro. Questo master è stato realizzato in collaborazione con lo IUSS di Pavia e ha lo stesso identico programma del master che ho fatto (sto facendo) io. Con le sole differenze che questo di Betlemme dura due anni, le lezioni sono solo il fine settimana e non c'è internship finale. Gli studenti, però, lavorano già quasi tutti (se non tutti) in questo settore.
Purtroppo mi perdo le discussioni della mattina perché ero al CCRR. Ci tornerò il giorno dopo. Nel pomeriggio il buon Superpagno mi raccatta nuovamente in macchina per andare a Gerusalemme. Stavolta proviamo in due a vedere se si riesce ad entrare nella spianata delle Moschee. Ora abbiamo qualche informazione in più: l'ingresso per i non-musulmani è dal Muro del Pianto. Sulla destra c'è una rampa di legno che porta fino in cima, proprio presso la moschea Al-Aqsa. Però bisogna individuare l'accesso, piccolino, che nessuno sembra disposto ad indicarti. Passiamo le varie misure di sicurezza, controlli, metal detector e via dicendo ed entriamo nel piazzale del Muro, oggi brulicante di turisti di ogni tipo. Individuiamo quella che dovrebbe essere la rampa in legno vicino agli scavi archeologici. Beh, ce n'è solo una quindi per forza... Ma non c'è nessuna entrata. Proviamo in tutti i modi ma niente, tutto chiuso. Proviamo anche a seguire una comitiva di turisti arabi che viene tenuta sott'occhio da decine di ebrei in apprensione: forse loro sanno dove andare. Ma ci mettono troppo. Via, andiamocene (anche perché la presenza di decine di militari che si mettono i fucili a tracolla non è proprio una scena delle migliori da vedere).
Camminando per le vie del suq, cartina alla mano, proviamo a vedere se dagli altri varchi si riesce ad accedere. Un poliziotto ci ferma e ci dice “As-salaam alaikum”. Rispondiamo. “Are you muslims?”. No, non siamo musulmani. “Sorry, you can't go in. It's just for muslims”. E ti pareva. Quando possiamo ritornare? Solo domenica mattina? Ah, ok. Riproviamo da un altra parte: idem. Proviamo a chiedere ad un bambino arabo in un negozietto: stessa risposta. Ok, avete vinto. Andiamo via.
Nella casa-ufficio di Massimo conosco anche gli altri due dell'ong italiana: il capo-missione è un francese di 35 anni, mentre il responsabile per la zona West Bank è un toscanaccio più o meno della stessa età. L'ambiente è scherzoso, cameratesco. Il francese dice a Massimo che ha appena ricevuto un offerta di 180 mila euro per un nuovo progetto. In effetti la sua dote principale è quella di riuscire a fare cassa molto velocemente, puntando sia sulla lunga esperienza sia sullo spiccato senso delle relazioni pubbliche. Entrambi amano molto la Palestina ma sono molto sfiduciati e pessimisti. Con questa recrudescenza della lotta fratricida Hamas-Fatah (con conseguente ulteriore spaccatura tra i palestinesi di Gaza e quelli della West Bankl) la situazione di certo non promette bene...
Ok. Andiamo a farci una birra che è meglio. Mentre facciamo benzina (e dal conto totale il benzinaro israeliano decide autonomamente di tenersi la mancia, mettendo meno benzina di quella chiesta), scopro che nei dintorni c'è un famoso “cristiano”. La particolarità di sto “cristiano” è di gestire un piccolo supermercato che vende alcolici a tutto spiano. E carne di maiale, che però tiene un po' nascosta. Ad essere sincero, dopo averne visto i prezzi, posso dire che “spaccia” carne di maiale: una confezione da 1 etto di salame a quasi 7 euro mi sembra tantino, no?
Ritorniamo nella zona di Jaffa street, il “cuore” pulsante di Gerusalemme. Lì vicino c'è una folla ed un concerto. Proviamo ad entrare. Soliti metal detector, ispezioni, controlli. Ci sono un sacco di famiglie numerose in giro. Il concerto è di flamenco ma la cantante usa una lingua incomprensibile. Ogni tanto butta lì qualche parola che dovrebbe essere spagnolo (e decisamente non lo è). In compenso i musicisti sono molto bravi. Visto che i passsanti continuano a guardarci male, ci mettiamo un attimo in disparte per vedere il concerto ma l'arrivo di una comitiva di amici che ci si piazza proprio davanti al naso ci fa desistere. La nostra brillante idea è quella di ripassare le nostre anemiche conoscenze della lingua araba e delle differenze fra l'arabo classico e quello parlato (che differisce e anche di molto da paese a paese, se non da zona a zona). Un po' come l'italiano e tutti i suoi dialetti (fra loro spesso incomprensibili).
Il concerto finisce e ce ne andiamo. Birretta. Ma prima un giro per vedere se c'è qualche posto non troppo affollato da fighetti. In teoria c'è una zona dove fanno musica dal vivo. Stasera niente: solo un sacco di gente attaccata al narghilè. C'è una specie di butta-fuori un po' alticcio che, quando mi chiede da dove vengo, inizia a parlare in uno spagnolo un po' forzato. “Ah, Patagonia”. “La Patagonia è nostra” afferma. Stupito, gli chiedo se per caso fosse cileno, dato che gli avevo pure detto di essere argentino. “No, la Patagonia è nostra”, ribadisce. “Scusi, ma non capisco”. E poi dice di essere argentino pure lui. Non so, non mi ha convinto molto. So che, prima di creare il “focolare ebraico” in Palestina, fra le opzioni proposte dal movimento sionista c'erano quelle di creare uno stato ebraico in Uganda o in Patagonia. E recentemente qualcuno mi ha passato degli articoli su presunti e strani movimenti di gruppi sionisti in Patagonia. Non so cosa ci sia di vero, anzi: me n'ero proprio dimenticato. Forse è stato anche lo spagnolo arrugginito del tipo, però quella frase non mi ha lasciato indifferente. La paranoia israeliana ormai sta prendendo possesso anche di me. Aiuto! Birra, birra. Meglio non pensarci. Però anche nel posto dove ci sediamo, decine e decine di ragazzi col fucile che camminano indisturbati tra la folla. E' vero che il servizio militare di tre anni (dai 18) è obbligatorio per maschi e femmine e che il fucile che danno ai soldati è sotto la loro responsabilità. Ma portarselo in giro come uno zainetto non è proprio la stessa cosa. Anche alcune ragazzine dallo sguardo bambinesco, che fino all'altro ieri penso giocassero ancora con le Barbie, girano con sti fucili a pompa a momenti più grandi di loro. Ogni tanto qualcuno mi inchioda lo sguardo negli occhi. E che cazzo... Al bar, dopo aver ordinato, Massimo prova a fare una battuta con la cameriera (chiedendo sconti). Senso dell'umorismo israeliano = zero. Ok. Ci passiamo la nostra serata tranquilli facendoci i cavoli nostri, ma la processione continua di ragazzini col fucile è insopportabile. Meglio tornare a Betlemme. Detto fatto, prendiamo la macchina e ci allontaniamo da Gerusalemme. Al “gate” del Muro fanno qualche storia. Una ragazzina bionda, soldato di leva, non capisce il concetto di “aiuto umanitario” né di “Unione Europea” per cui chiede istruzioni per telefono. Tutto ok. Il cancello si apre permettendo anche a due poveri cani randagi di ritornare nella loro tana a Betlemme.
Le strade deserte della città sono almeno più tranquille. Che si dica pure che sono fazioso, ma qui di armi non ne ho ancora viste (ci sono, senz'altro, ma almeno non le portano a spasso in centro). Concludiamo la serata con un gran bel panino shawarma (anche a Gerusalemme ho visto che spopola). E buona notte.
Salamoia
Purtroppo mi perdo le discussioni della mattina perché ero al CCRR. Ci tornerò il giorno dopo. Nel pomeriggio il buon Superpagno mi raccatta nuovamente in macchina per andare a Gerusalemme. Stavolta proviamo in due a vedere se si riesce ad entrare nella spianata delle Moschee. Ora abbiamo qualche informazione in più: l'ingresso per i non-musulmani è dal Muro del Pianto. Sulla destra c'è una rampa di legno che porta fino in cima, proprio presso la moschea Al-Aqsa. Però bisogna individuare l'accesso, piccolino, che nessuno sembra disposto ad indicarti. Passiamo le varie misure di sicurezza, controlli, metal detector e via dicendo ed entriamo nel piazzale del Muro, oggi brulicante di turisti di ogni tipo. Individuiamo quella che dovrebbe essere la rampa in legno vicino agli scavi archeologici. Beh, ce n'è solo una quindi per forza... Ma non c'è nessuna entrata. Proviamo in tutti i modi ma niente, tutto chiuso. Proviamo anche a seguire una comitiva di turisti arabi che viene tenuta sott'occhio da decine di ebrei in apprensione: forse loro sanno dove andare. Ma ci mettono troppo. Via, andiamocene (anche perché la presenza di decine di militari che si mettono i fucili a tracolla non è proprio una scena delle migliori da vedere).
Camminando per le vie del suq, cartina alla mano, proviamo a vedere se dagli altri varchi si riesce ad accedere. Un poliziotto ci ferma e ci dice “As-salaam alaikum”. Rispondiamo. “Are you muslims?”. No, non siamo musulmani. “Sorry, you can't go in. It's just for muslims”. E ti pareva. Quando possiamo ritornare? Solo domenica mattina? Ah, ok. Riproviamo da un altra parte: idem. Proviamo a chiedere ad un bambino arabo in un negozietto: stessa risposta. Ok, avete vinto. Andiamo via.
Nella casa-ufficio di Massimo conosco anche gli altri due dell'ong italiana: il capo-missione è un francese di 35 anni, mentre il responsabile per la zona West Bank è un toscanaccio più o meno della stessa età. L'ambiente è scherzoso, cameratesco. Il francese dice a Massimo che ha appena ricevuto un offerta di 180 mila euro per un nuovo progetto. In effetti la sua dote principale è quella di riuscire a fare cassa molto velocemente, puntando sia sulla lunga esperienza sia sullo spiccato senso delle relazioni pubbliche. Entrambi amano molto la Palestina ma sono molto sfiduciati e pessimisti. Con questa recrudescenza della lotta fratricida Hamas-Fatah (con conseguente ulteriore spaccatura tra i palestinesi di Gaza e quelli della West Bankl) la situazione di certo non promette bene...
Ok. Andiamo a farci una birra che è meglio. Mentre facciamo benzina (e dal conto totale il benzinaro israeliano decide autonomamente di tenersi la mancia, mettendo meno benzina di quella chiesta), scopro che nei dintorni c'è un famoso “cristiano”. La particolarità di sto “cristiano” è di gestire un piccolo supermercato che vende alcolici a tutto spiano. E carne di maiale, che però tiene un po' nascosta. Ad essere sincero, dopo averne visto i prezzi, posso dire che “spaccia” carne di maiale: una confezione da 1 etto di salame a quasi 7 euro mi sembra tantino, no?
Ritorniamo nella zona di Jaffa street, il “cuore” pulsante di Gerusalemme. Lì vicino c'è una folla ed un concerto. Proviamo ad entrare. Soliti metal detector, ispezioni, controlli. Ci sono un sacco di famiglie numerose in giro. Il concerto è di flamenco ma la cantante usa una lingua incomprensibile. Ogni tanto butta lì qualche parola che dovrebbe essere spagnolo (e decisamente non lo è). In compenso i musicisti sono molto bravi. Visto che i passsanti continuano a guardarci male, ci mettiamo un attimo in disparte per vedere il concerto ma l'arrivo di una comitiva di amici che ci si piazza proprio davanti al naso ci fa desistere. La nostra brillante idea è quella di ripassare le nostre anemiche conoscenze della lingua araba e delle differenze fra l'arabo classico e quello parlato (che differisce e anche di molto da paese a paese, se non da zona a zona). Un po' come l'italiano e tutti i suoi dialetti (fra loro spesso incomprensibili).
Il concerto finisce e ce ne andiamo. Birretta. Ma prima un giro per vedere se c'è qualche posto non troppo affollato da fighetti. In teoria c'è una zona dove fanno musica dal vivo. Stasera niente: solo un sacco di gente attaccata al narghilè. C'è una specie di butta-fuori un po' alticcio che, quando mi chiede da dove vengo, inizia a parlare in uno spagnolo un po' forzato. “Ah, Patagonia”. “La Patagonia è nostra” afferma. Stupito, gli chiedo se per caso fosse cileno, dato che gli avevo pure detto di essere argentino. “No, la Patagonia è nostra”, ribadisce. “Scusi, ma non capisco”. E poi dice di essere argentino pure lui. Non so, non mi ha convinto molto. So che, prima di creare il “focolare ebraico” in Palestina, fra le opzioni proposte dal movimento sionista c'erano quelle di creare uno stato ebraico in Uganda o in Patagonia. E recentemente qualcuno mi ha passato degli articoli su presunti e strani movimenti di gruppi sionisti in Patagonia. Non so cosa ci sia di vero, anzi: me n'ero proprio dimenticato. Forse è stato anche lo spagnolo arrugginito del tipo, però quella frase non mi ha lasciato indifferente. La paranoia israeliana ormai sta prendendo possesso anche di me. Aiuto! Birra, birra. Meglio non pensarci. Però anche nel posto dove ci sediamo, decine e decine di ragazzi col fucile che camminano indisturbati tra la folla. E' vero che il servizio militare di tre anni (dai 18) è obbligatorio per maschi e femmine e che il fucile che danno ai soldati è sotto la loro responsabilità. Ma portarselo in giro come uno zainetto non è proprio la stessa cosa. Anche alcune ragazzine dallo sguardo bambinesco, che fino all'altro ieri penso giocassero ancora con le Barbie, girano con sti fucili a pompa a momenti più grandi di loro. Ogni tanto qualcuno mi inchioda lo sguardo negli occhi. E che cazzo... Al bar, dopo aver ordinato, Massimo prova a fare una battuta con la cameriera (chiedendo sconti). Senso dell'umorismo israeliano = zero. Ok. Ci passiamo la nostra serata tranquilli facendoci i cavoli nostri, ma la processione continua di ragazzini col fucile è insopportabile. Meglio tornare a Betlemme. Detto fatto, prendiamo la macchina e ci allontaniamo da Gerusalemme. Al “gate” del Muro fanno qualche storia. Una ragazzina bionda, soldato di leva, non capisce il concetto di “aiuto umanitario” né di “Unione Europea” per cui chiede istruzioni per telefono. Tutto ok. Il cancello si apre permettendo anche a due poveri cani randagi di ritornare nella loro tana a Betlemme.
Le strade deserte della città sono almeno più tranquille. Che si dica pure che sono fazioso, ma qui di armi non ne ho ancora viste (ci sono, senz'altro, ma almeno non le portano a spasso in centro). Concludiamo la serata con un gran bel panino shawarma (anche a Gerusalemme ho visto che spopola). E buona notte.
Salamoia
Ah, il venerdì! Certo che questa settimana ho fatto proprio ben poco!
Intanto devo chiarire che il “fine settimana” è un tantino diverso da quello occidentale e anche da come l'ho descritto qualche giorno fa. Non dimentichiamoci che ci sono fedeli di tre religioni in questa terra: musulmani, ebrei e cristiani. Per le tre confessioni, il giorno festivo è diverso: venerdì per i primi, sabato per i secondi, domenica per gli ultimi. E le cose sono diverse a seconda di dove ci si trova. Qui in Palestina si riposa ovviamente il venerdì ma anche la domenica (i cristiani sono molti, soprattutto a Betlemme, sia Palestinesi che volontari stranieri). In Israele è il sabato il giorno festivo (proibito fare qualsiasi cosa, soprattutto nei quartieri ortodossi: chi passa in macchina rischia anche la lapidazione, e non scherzo). Nelle zone arabe è anche il venerdì. Ma spesso c'è un fine settimana lunghissimo che inizia il giovedì sera e finisce la sera della domenica. Per il personale straniero (ong e agenzie varie) si vede un po'. Io qui sto a casa venerdì e domenica. Massimo, ad esempio, venerdì e sabato. Oggi siamo a casa entrambi, quindi si va all'università a Betlemme a vedere un po' sti studenti di Cooperazione allo Sviluppo cosa combinano.
Rispetto agli altri posti visti finora, l'area dell'università è molto pulita, ordinata e tenuta in condizioni perfette. La struttura è quella dei campus statunitensi, con alberi, aiuole, fontane... Molto bella, veramente. Guardando in giro si scopre che è un'università cattolica salesiana (c'è anche una bandiera del Vaticano che non lascia spazio a dubbi). All'entrata chiedo del master e mi portano da un gruppetto di studenti, tutti sopra la trentina. Sì, sono loro. Scambio due chiacchiere con uno di loro che si sorprende quando gli dico che frequento lo stesso corso ma a Pavia. Abbiamo pure alcuni professori in comune: dal mitico Gianni Vaggi al suo braccio destro Missaglia. E poi altri.
Le discussioni delle tesi sono diverse rispetto alle nostre: mentre a noi -dopo aver finito l'internship- è richiesta una tesina con una presentazione in power point sull'esperienza realizzata, a loro si chiede una vera e propria tesi (ma non fanno l'internship). Che però devono veramente difendere dagli attacchi impietosi delle commissioni e persino del pubblico. Credo sarebbe il terrore di chiunque: resistere per circa mezz'ora ad ogni tipo di domanda (sempre fetente) e dimostrare la validità dei propri dati e argomenti. Però c'è una bella differenza: loro sono tutti molto più grandi di noi e soprattutto già lavorano nel settore della cooperazione. Quindi c'è una notevole differenza in quanto a esperienza e conoscenze acquisite. Eh già.
I lavori presentati sono proprio ben fatti e difesi altrettanto bene. In particolare ce n'è uno che suscita l'ammirazione dei più (non solo per i contenuti ma anche per l'esposizione molto professionale). Si tratta di uno studio sul progetto internazionale di collegamento Mar Rosso-Mar Morto, per la produzione di energia elettrica e di acqua potabile (previa adeguata desalinizzazione). Il progetto è interessante anche politicamente perché coinvolge Israele, Giordania e Palestinesi che svolgono ruoli quasi uguali (le decisioni, almeno, sono da prendere per consenso e non a maggioranza). Il progetto è importante anche perchè ci sarebbe un maggiore apporto idrico dato che – a causa dell'abuso e dell'egemonia israeliana sul bacino del Giordano – il cosiddetto “oro blu” scarseggia e di gestire in maniera più razionale e democratica il Giordano, gli israeliani non vogliono neanche sentirne parlare. Chissà se si riuscirà a fare (gli ostacoli morfologici non sono affatto trascurabili, e l'impatto ambientale potrebbe essere troppo alto)...
Soddisfatti per quanto visto e sentito, Superpagno e io ci apprestiamo a trascorrere una giornata di relax e svago da qualche parte qua vicino. Approfittiamo per salutare Andrea, ex studente del master di Pavia e ora responsabile dell'omonima sezione palestinese. Molto gentile e disponibile, e felice di vedere due “pavesi” da queste parti, ci consiglia un sacco di cose: dall'antichissimo monastero di Marsaba alle rovine dell'Herodion (la fortezza-reggia di Erode), da Jerico al Mar Morto. Mmm... Sì, Mar Morto potrebbe anche essere, già. Fatta. Si va al Mar Morto. E se ci avanza tempo anche a Jerico che tanto è da quelle parti.
In autostrada l'aria è bollente: addirittura, mettendo la mano fuori dal finestrino per cercare frescura, la si ritrae immediatamente a causa della temperatura fastidiosa. Sulle colline brulle e aride c'è ogni tanto qualche capanna di beduini, con asimi e dromedari al seguito. Dev'essere una vita dura, ma veramente dura la loro. La strada, intanto, continua a scendere finché arriviamo a –600 metri sul livello del mare. Nonostante il deserto, rigogliose piantagioni di palme da dattero e frutteti sono caratteristiche della zona. “Tecnologia avanzata israeliana” dirà qualcuno. Senza dubbio. Ma anche ladrocinio egoista dell'acqua del Giordano. Non è un caso che le terre palestinesi siano tutte aride, deserte e incolte e quelle israeliane (anche attorno agli insediamenti in mezzo al deserto!) siano tutte verdi.
Ci fermiamo al primo stabilimento balneare per chiedere i prezzi (non sappiamo se ci sia spiaggia libera qui vicino. Forse no). Lo faccio in inglese ma per due volte il tizio alla cassa mi chiede se parlo arabo. A questo punto comincio ad avere un dubbio: non è che gli israeliani mi trattano un po' da culo perché mi scambiano per palestinese? Comunque il posto è caro, via. Al secondo si risparmia una manciata di shekel. Massimo chiede scherzosamente se c'è qualche sconto. La cassiera risponde seccata che non ce ne sono. In realtà c'erano, per gli studenti... Un'altra volta umorismo uguale a zero. Evabbé. L'unico a sorridere è un ragazzotto che fuma il narghilé (lui lo chiama “hooba”) dietro il bancone di un kiosco. Ci chiama in ebraico e, non ottenendo risposta, prova in inglese. “E dai, vi sto chiamando ragazzi! Voglio solo fare due chiacchiere!”. (Ok, scusa, è che finora ci state trattando un po' maluccio). In effetti è molto disponibile e gentile e dice di chiamarlo se abbiamo bisogno di qualsiasi cosa. Ecco come ci si conquista i clienti!
Scendiamo nella depressione del Mar Morto, guardando le alture della Giordania sull'altra sponda, e scegliamo un ombrellone di paglia lontano dal chiasso e dagli altri turisti. Poi, messo il costume, ci tuffiamo in questo lago assurdo. Beh: la consistenza dell'acqua è surreale. Il mare è veramente così salato come lo si descrive di solito! L'acqua sembra uno sciroppo denso e pizzica la pelle. Nuotare è quasi impossibile nonché altamente sconsigliato. A dire il vero, è sconsigliato mettere la testa sott'acqua: l'enorme quantità di sale potrebbe saturarvi il cervello e seccarvi istantaneamente bocca e occhi! Purtoppo qualche goccia d'acqua mi va veramente su bocca e occhi: un'esperienza che avrei evitato volentieri... Beh: l'unica cosa da fare è lasciarsi andare. Ci pensa il Mar Morto a metterti sotto il culo una specie di canotto che ti spinge verso la superficie. Stare in piedi fermi in acqua è quasi impossibile: il sale ti sdraia. Sembra di stare sprofondati in poltrona. Addirittura c'è chi legge il giornale e chi prende il sole in acqua, anche sulla schiena. Affondare è impossibile, annegare pure.
L'altra grande attrazione del Mar Morto sono i suoi famosi fanghi che sembra siano una pozione magica per la pelle. Non tutti i fanghi, però, solo quelli neri. I bagnanti vanno a caccia della preziosa argilla poltigliosa mettendo le mani in acqua. Alcuni posti sono stati letteralmente scavati, tanto che cio sono delle buche. Provo anch'io ma senza successo. Praticamente il fondo del lago è un'enorme scodella di argilla fresca. Se ne tiri su un pezzo, si vedono chiaramente le varie stratificazioni con colori che vanno dal bianco al nero passando per il rossiccio. Alcune volte si tirano su anche dei sassi. No, non sono sassi: sono cristalli di sale. Ah sì, giusto. Vabbè, niente argilla nera. Andiamo a cazzeggiare sulle sdraio (dopo una dovuta doccia desalinizzante!). In pochi minuti, il “nostro” ombrellone è preso d'assalto da ebrei ortodossi con barbe e riccioli. E kippah in testa. Un gruppetto entra in acqua vestito (t-shirt e pantaloni corti), con tanto di occhiali e kippah. Alcuni entrano in acqua fumando e restano a mollo con la cicca tra le dita. Ben presto, una decina di ragazzi ci accerchia con le sedie e capiamo come debbano sentirsi i palestinesi. Ci hanno colonizzato l'ombrellone!
Più tardi si riparte col secondo giro di salamoia e fango. Solo che stavolta trovo il prezioso “paciòro” nero e pure in grandi quantità. Ne porto a riva un bel mucchio, suscitando l'invidia di alcuni bagnanti. Subito iniziamo a camuffarci da Diabolik: nel giro di qualche minuto siamo completamente neri, ricoperti da un viscido strato di fango. Dopo le foto di rito, restiamo fermi per qualche minuto per consentire alla preziosa sostanza di fare il suo effetto. Che in effetti c'è: lavata dal fango, la pelle è rimasta liscia e fresca, come rinnovata. Yeah, me ne porterò a casa un poco, he he!
Il resto pomeriggio, prima dell'improvviso tramonto, lo trascorriamo in panciolle all'ombra e in compagnia di un paio di bionde. Birre, bionde. Con un simile aspetto da turisti, era impossibile che ci scambiassero per altro. E infatti, una ragazza bruna dalla carnagione olivastra e costume giallo, si avvicina con un block notes e un tizio con macchina fotografica al seguito. Dopo aver capito che non eravamo israeliani, ci dice di essere una giornalista e che stava scrivendo un articolo sui frequentatori del Mar Morto. Ci chiede cosa ne pensiamo, come troviamo la spiaggia, se sappiamo dei fanghi, ecc. Massimo, riminese, ghigna quanto lei chiede della “spiaggia”. Eh, Rimini... Lei ghigna un po' meno quando sente che abitiamo uno a Betlemme e l'altro a Gerusalemme. Est. Il fotografo, appena dico “Bethlehem” fa “Ah...” e se ne va. L'intervista è praticamente finita. Vabbé, chissene.
Il sole inizia a calare, tempo di ripartire. Arriviamo a Gerusalemme che è già buio, lasciandoci da parte coloni, insediamenti e checkpoints. Un salto veloce dal “cristiano” per una piccola scorta di dolce nettare di luppolo e poi via, verso Betlemme. Cara Betlemme, ormai sei casa mia!
Facciamo un salto dal kebabbaro, col quale facciamo due chiacchiere scherzose. “Ah! Italia! Totti. Argentina? Maradona! Great football player!”, commenta mentre taglia la succulenta carne d'agnello e l'adagia sul pane caldo assieme alle verdure e alle salsine di sesamo e peperoncino. Buon appetito e benvenuti in Palestina! Ognuno qua ce lo dice: benvenuto, benvenuto in Palestina.
Facciamo tappa a casa mia, dopo aver fatto conoscere Massimo e Abu Wahid, oggi in forma strepitosa. Birra fresca e shawarma, cena deliziosa che consumiamo con contorno di due chiacchiere sui bei tempi andati del master, con le feste, le solite incomprensioni, le serate allegre e spensierate nonostante la statistica o la macroeconomia...
***
Sabato più che tranquillo. Nuova lezione di arabo, con le prime lettere. Inizio a riconoscere una parola ogni quarto d'ora, ma è già più di zero. Devo parlare di più, è questione di pratica. Mentre ero da Echlass, mi chiama Ibrahim: “Andiamo a Beit Sahour”. Ok, non so cosa ci sia ma ok. Presto detto: c'è un posto che si chiama “Alternative Information Center” o AIC. E' un'associazione fondata da israeliani e palestinesi, in Palestina, e che vuole dare informazioni vere e non distorte sull'occupazione e sulla realtà del conflitto. Qui hanno creato anche una specie di caffé, dove due volte alla settimana (martedì e sabato) ci sono degli eventi: conferenze, cineforum, mostre, ecc. Stasera c'è la testimonianza di un ex progioniero palestinese (accusato di militanza politica, senza però averne le prove) che racconta del progetto artistico elaborato dai carcerati. Arriviamo verso la fine ma non importa: sono ugualmente felice di vedere questo posto. Tra l'altro, I presenti sono tutti stranieri (lo si vede dalle facce: capelli biondi, occhi azzurri e pelle color latte non sono proprio normali qui!). E molti di questi italiani. Beh, quindi è vero che c'è una “piccola Italia” a Betlemme. Però, più che piccola Italia direi piccolo “Grandu-hato di Tos-hana”.
***
Boh...
Domenica tranquilla, segnata dal cazzeggio estremo, dall'allacciamento della linea telefonica (ma sono ancora senza internet) e dal rifornimento di generi alimentari. Un po' di bucato, pulizie, ecc.
Serata in compagnia del piccolo “Grandu-hato di Tos-hana” e qualche palestinese e altri stranieri che girano attorno all'AIC, a giocare a carte e sparare cazzate inlibertà.
Sul tardi scopro (e sperimentato, con moderazione) un modo di dire Palestinese: “andiamo al mare”. Che significa “andiamo a bere”. Da fonte sicura mi sono fatto dire quali sono I posti dove trovare da bere, e a Betlemme e dintorni è pieno zeppo. Tra l'altro, sono spesso cristiani. Hai capito sti cristiani mbriaconi!
Serata in compagnia del piccolo “Grandu-hato di Tos-hana” e qualche palestinese e altri stranieri che girano attorno all'AIC, a giocare a carte e sparare cazzate inlibertà.
Sul tardi scopro (e sperimentato, con moderazione) un modo di dire Palestinese: “andiamo al mare”. Che significa “andiamo a bere”. Da fonte sicura mi sono fatto dire quali sono I posti dove trovare da bere, e a Betlemme e dintorni è pieno zeppo. Tra l'altro, sono spesso cristiani. Hai capito sti cristiani mbriaconi!
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