29 agosto 2008

LUCE --- Jenin, Hebron

In arabo luce si dice "Noor" (e tra l'altro, koh-i-noor, "montagna di luce", è la parola usata per chiamare il diamante) ed è anche un nome di donna, molto popolare.

Quando arrivai a metà luglio, il campo estivo con i bambini del CCRR stava volgendo al termine. Mi ricordo che una sera Alex, l'animatrice statunitense in procinto di tornare a casa, era in vena di ricordi e parlava della sua prima esperienza palestinese: i matrimoni, la visita ad una famiglia beduina, ecc. Tra una risata e l'altra, disse una cosa che sul momento non capii e alla quale non diedi molta importanza.
Disse, trovando conferma nei presenti, che di sera tutti i palestinesi si chiudono in casa e si piazzano davanti alla TV per guardare "Noor".


Più di un mese dopo (qualche giorno fa), leggo un articolo de Il Manifesto del 20 agosto che parla proprio di Noor. E lo stesso giorno, anche l'agenzia di stampa palestinese Ma'an News parla di Noor.

Ma chi cavolo è sta Noor? La protagonista di una telenovela. Che però fa scalpore, molto scalpore.
Si tratta di una produzione turca (che però in Turchia uscì col nome di "Gümüş", argento, e fu un fiasco colossale) che ha sorpreso gli stessi turchi, i quali non avrebbero mai e poi mai pensato di aver fatto esplodere una specie di "bomba" sociale la cui onda d'urto si è propagata a tutti i Paesi Arabi.

Dato che posso vantare uno stimato collaboratore turco (in realtà si tratta di un vecchio e caro amico, ex coinquilino ai tempi dell'università!) , gli chiesi se sapesse dirmi qualche cosa di più. In effetti non molto: confermò che Gümüs è stato un flop senza gloria. E che Istanbul è stata improvvisamente invasa da migliaia di turisti Sauditi che non sono passati inosservati...


Ecco, a questo punto posto l'articolo de Il Manifesto, firmato da Marco D'Eramo, che spiega meglio di me il fenomeno "Noor", che io qui ho cominciato a vedere solo da poco notando i numerosi cartelloni e poster che ritraggono i protagonisti.
Ah, sia chiaro che ho cominciato a vedere da poco il fenomeno, non la telenovela. Ci tengo alla reputazione! ;-)

Buona lettura!

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Dalla Turchia con amore. Il serial tv che fa scandalo
Il mondo arabo sconvolto da «Noor», serie acquistata dalla Siria.
Rispetta le tradizioni islamiche, ma trasgredisce e seduce

Marco d'Eramo

È incredibile come persino la trasmissione più melensa e più banale, possa scatenare controversie accanite, provocare divorzi, suscitare la condanna del clero. È quel che sta capitando nel mondo arabo, dall'Algeria al Bahrein, a causa di un serial tv turco. La serie era uscita in Turchia nel 2005 sotto il titolo Gümüs («Argento»), ma all'epoca era stata un flop clamoroso. Quest'anno la stessa serie è stata comprata dalla ditta siriana Sama Art Production doppiata in arabo, con il titolo Noor («luce») , dal nome della protagonista, e ha ottenuto invece un successo senza precedenti.
Trasmessa dalla saudita Middle East Broadcasting Company (Mbc), la serie si concluderà il 30 agosto, alla vigilia del mese di digiuno (Ramadan), ma solo dopo aver sconvolto per quasi cinque mesi le vite di milioni di famiglie arabe. In Algeria, «in tutti i luoghi di lavoro e negli autobus, Noor si è imposta come tema di conversazione dominante soprattutto tra le donne» (Le Quotidien d'Oran). In Arabia Saudita (28 milioni di abitanti), ogni sera Noor è seguita da 4 milioni di persone, quasi tutte spettatrici. In parte per l'avvenenza del protagonista maschile (Mohannad) interpretato dal 24-enne attore e modello turco Kivanc Tatlitu che nel 2002 aveva vinto il premio per il miglior modello del mondo: biondo e con gli occhi azzurri, barba di pochi giorni, è diventato l'idolo di miriadi di donne islamiche che non hanno esitato a scatenare le ire di coniugi, fidanzati, padri e fratelli, mettendo la sua foto come immagine del display del proprio telefonino o appendendo il suo poster nella propria camera.
I patres familias che avevano sequestrato il televisore per impedire alle loro donne e figlie di guardare il serial sono stati spesso dribblati con spedizioni serali nelle case di parenti maxischermati. Contro l'infatuazione per Kivanc Tatlitu i maschi arabi le hanno provate tutte, hanno cercato persino di diffondere la voce che è gay. Una vignetta del quotidiano saudita Al Riyadh mostra un uomo dall'aspetto insignificante che entra nello studio di un chirurgo plastico con la foto di Mohannad. E ora circolano barzellette tipo: una turista araba in Turchia si perde il marito; quando lo descrive alla polizia il figlio esclama: «Ma papà non è così!». «Zitto - gli sussurra la mamma - potrebbero perfino darmi Mohannad». D'altronde negli ultimi mesi Mohannad è stato il nome più imposto ai neonati dal Maghreb alla Fertile Mezzaluna, mentre molte femminucce si sono viste affibbiare «Noor» dal nome della quasi altrettanto bella protagonista, di cui - ed è curioso - non sono riuscito a trovare in nessun giornale il nome dell'attrice che la impersona. Ma anche gli uomini non hanno saputo sottrarsi alla malia, tanto che molti locali di chicha - narghilé - si sono attrezzati di maxischermi tv per consentire ai propri clienti di fumare senza perdersi un episodio.
Nei blog, le ragazze appassionate di Noor non nascondono la loro ammirazione per il biondo attore-modello, ma scrivono che la serie le avvince soprattutto perché è una bellissima storia di amore. Poiché la serie è composta da più di 140 episodi, era impossibile ricostruire tutta la storia: mi sono affidato ai resoconti (spesso contraddittori) dei corrispondenti in Medio oriente o dei critici televisivi sulla stampa internazionale (da The Houston Chronicle, a El Pais, al Bharain Times, al Washington Post).
La protagonista, Noor, viene da una famiglia povera, ma è riuscita a diventare disegnatrice di moda. Un suo ricco zio le combina un matrimonio con Mohannad di cui lei era segretamente innamorata da ragazzina. Ma il bel Mohannad non la ama perché à ancora innamorato di una prima moglie (Nahan) che giace in coma irreversibile, al punto che la prima notte di matrimonio, Mohannad si dà. Ma lei non demorde e cerca di farlo innamorare, nonostante lui sia già padre di un figlio, e malgrado la prevedibile ostilità e perfidia della suocera. Noor è gelosa, anche perché a un certo punto Nahan esce dal coma irreversibile. Per di più, da bambina Noor è stata rapita a mano armata, minacciata di stupro e ha dovuto interrompere una gravidanza.
Più che la storia in sé però quel che appassiona le spettatrici è il clima e l'ambiente della storia. La coppia è ricca e vive nel mondo dorato. Tanto che la villa con vista sul Bosforo in cui è stato girato il serial è diventata meta di devoto turismo da parte delle donne saudite: affittata da un tour operator, è ora museo temporaneo della serie. L'anno scorso dall'Arabia erano giunti in Turchia 41.000 turisti; quest'anno il Turkish Daily News calcola che saranno più di centomila, e tra loro c'è anche Hissa al Shalam, moglie del re Abdullah, You Tube diffonde immagini che la mostrano mentre fa shopping nei mercatini di Istanbul.
Ma è soprattutto il tipo di società musulmana rappresentata in Noor a deliziare le spettatrici. Da un lato rispetta gli aspetti tradizionali dell'Islam: i protagonisti osservano il digiuno del Ramadan e sono sposati grazie a un matrimonio combinato. La censura saudita ha operato tagli severi: non si vedono baci, né scene d'amore, né nudità: gli episodi originali duravano 80 minuti, quelli della versione trasmessa a Riyadh solo 45. Però le donne non portano veli, preferiscono jeans attillati, braccia nude e persino scollature, non sono mai mostrate mentre pregano, mentre ogni tanto protagonisti e comprimari bevono un drink, hanno rapporti sessuali fuori dal matrimonio, e una cugina ha persino abortito. In questo senso, Noor è proprio un serial della nuova Turchia del premier Recep Tawip Erdogan e del suo Partito della Prosperità: una società maomettana, ma molto più aperta di quella saudita, un Islam moderno, dove le donne fanno lavori di prestigio (disegnatrici di moda), escono di casa, hanno storie, viaggiano. Alle spettatrici arabe parla di una famiglia musulmana che vive nel mondo musulmano, solo in un Islam diverso. Al suo impatto contribuisce la lingua che non è l'arabo classico di preghiere e notiziari televisivi, ma la lingua parlata siriana, quasi un dialetto, che rende la vicenda più vicina alla vita di tutti i giorni. In questo senso Noor è un serial assai furbo, conservatore perché sottolinea l'importanza della famiglia ed esalta l'amore tradizionale, ma nello stesso tempo è trasgressivo. La trasgressione all'interno di una società islamica è quel che fa la differenza tra le telenovelas brasiliane e messicane di cui sono inondati i canali tv arabi e invece questa serie che suona nello stesso tempo familiare ed esotica. Come scrive in Algeria Le quotidien d'Oran, Noor «mostra una società tollerante, che però rispetta i limiti».
In particolare in Arabia saudita quel che più colpisce le donne è il rispetto del marito per la moglie, dell'uomo per la donna. In una società in cui una donna non può uscire di casa se non accompagnata da un parente maschio, molte donne per la prima volta scoprono quel che un marito o un fidanzato potrebbe darle, e non le dà: affetto, complicità, sensualità corrisposta. Inoltre la serie solleva il pesante velo di ipocrisia che ricopre queste società, in cui gli adulteri sono frequenti, ma rigorosamente tabù, in cui le donne spesso abortiscono il frutto delle loro relazioni extraconiugali, ma nessuno ne parla, come se non esistessero. Per la scrittrice e attivista delle donne Fawyaza Abu Khalid, di Riyadh, Noor «apre gli occhi alle donne saudite. Gli uomini si sentono minacciati. È la prima volta che le donne dispongono di un modello di la bellezza maschile e di passione virile e che possono compararlo con i propri uomini. Per la prima volta si sono rese conto che i loro mariti non sono proprio gentili, e che loro non sono trattate come dovrebbero, e che c'è un'opzione là fuori». Una conferma di questa tesi viene da Hamed Bitwai, avvocato, predicatore e militante di Hamas nella città di Nablus nella West Bank: «Questa serie collide con la nostra religione islamica, i nostri valori e tradizioni».
Anche se con ritardo, le gerarchie religiose hanno reagito, e per una volta hanno messo d'accordo sunniti e sciiti. Forse su mandato del Sommo Concilio degli Studiosi Religiosi, l'autorità che orienta il governo in materia di religione, all'inizio di agosto il gran muftì saudita, massima autorità sunnita, lo sceicco Abudl Aziz Al Asheik, ha lanciato una fatwa (editto religioso) che proibisce di guardare la serie: «È malefica, distrugge l'etica delle persone e va contro i nostri valori.» «La tv che la trasmette si pone contro Dio e il suo Profeta». Nello stesso tempo il gran muftì del Bahrein, lo sceicco sciita Isa Passim, si chiedeva: «A che si deve la popolarità della serie chiamata Noor che conduce al peccato? Non è forse dovuta a una irrisione di Allah?».
È interessante notare che il clero sannita o sciita non ha mai condannato le telenoverlas sudamericane che sono molto più osées di Noor. Ma è dubbio che sul serial turco le condanne religiose abbiano lo stesso effetto che ebbero per esempio sul reality show Il grande fratello che non è stato mai diffuso dalle emittenti saudite o sulla serie satirica Tash ma tash sulla vita quotidiana in Arabia saudita la cui emissione fu bloccata... Da un lato, la condanna arriva troppo tardi, quando la serie è quasi terminata, dall'altro la sua popolarità è ormai acquisita e si tratterebbe di chiudere le stalle quando la mandria è già scappata.
Altra storia è sapere quanto durerà e quanto profondo sarà l'effetto sulle società arabe di Noor che, come tutto ciò che pertiene allo show business, rientra nel regno dell'effimero. Tanto per cominciare, alla vigilia del Ramadan, su Mbc a prendere il posto di Noor sarà Bab al Hara, che trasuda nostalgia per la vita tradizionale araba.
Ma nel frattempo l'effetto di Noor sulle società islamiche può essere sintetizzata nell'immagine di un negozio di vestiti a Gaza, in Palestina, il Jaro's Store, che fa affari d'oro vendendo copie delle camicette indossate dalle protagoniste della serie, incluso un top metallico sbracciato che però le pie e devote palestinesi indosseranno sopra un body a maniche lunghe.

(Mohannad e Noor)

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JENIN

Ieri (beh... ormai l'altroieri) con Jonas e Noah siamo andati nella città settentrionale di Jenin, il "polo agricolo" della Cisgiordania, per un incontro di sheikh (autorità religiose islamiche, diciamo dei preti musulmani) nell'ambito del progetto "Inter-faith" (interfede). Lo scopo del progetto, al quale partecipano anche altre ong sia locali che straniere (tedesche), è quello di far dialogare i religiosi delle principali comunità sia al loro interno che fra di loro, assumendo che tutte e tre le religioni siano portatrici di un forte messaggio di Pace. Contemporaneamente al CCRR, infatti, stanno lavorando anche altre realtà che appoggiano preti cristiani e rabbini ebrei.
Per quanto riguarda questa riunione interna alla fede musulmana, ce n'era già stata una a luglio, a Nablus.

Jenin è una delle città palestinesi che più ha sofferto l'occupazione israeliana. Durante la 2° Intifada fu assediata e l'esercito occupante quasi rase al suolo alcune sue aree (campi profughi, in particolare: si accaniscono sempre contro i campi). L'esercito provocò molti morti e tantissimi nuovi rifugiati. Per avere un po' l'idea della devastazione, consiglio di guardare il docu-film "Jenin Jenin".

Una delle conseguenze di quell'assedio, dal punto di vista politico e sociale, è stata la radicalizzazione degli abitanti. Da un'altra prospettiva, invece, la fiera Jenin è diventata ancora più isolata. Cominciando dalla difficoltà che c'è per raggiungerla o anche uscirne. Almeno per i palestinesi, ovviamente. Check point a non finire, tempi di attesa biblici, code e perquisizioni snervanti, umiliazioni quotidiane, strade distastrate che dovrebbero essere quelle principali, insediamenti ovunque che restringono via via le aree disponibili, accessi vietati a questa o a quella strada e via dicendo.
Non vado oltre: è da un mese e mezzo che dico le stesse cose.

L'unica cosa che aggiungo è che se io in un mese e mezzo mi sono rotto e demoralizzato, cosa dovrebbero dire i Palestinesi che questa situazione la vivono da 60 anni? Me lo chiedo tutti i giorni e, come tutti i giorni, li guardo e mi rispondo da solo: ormai sono nella più totale apatia. Credo che quasi nulla ormai li può smuovere o sorprendere.
L'altro giorno parlavo appunto con la mia insegnante di arabo a proposito delle barche arrivate a Gaza. "Quali barche?". Ecco...

Mi ha raccontato che ormai tutte queste cose non interessano più i palestinesi. Si sono quasi abituati al Muro, all'occupazione, alle umiliazioni, al fatto di essere trattati da terroristi, di essere presi in giro dai loro governanti e dai paesi arabi, alle restrizioni, agli insediamenti illegali, alla separazione ormai irreparabile tra Gaza e Cisgiordania. Non si scandalizzano per nulla, non si preoccupano più di niente, non si appassionano a nulla.
Fino a qualche anno fa, invece, si riversava nelle strade quando arrivavano i soldati o celebravano con rabbia l'ennesimo martirio (sono considerati "martiri" tutti gli uccisi in combattimento e gli attentatori suicidi). Dopo un po', invece, hanno cominciato a dire: "ah, un altro martirio? ok, vabbé"...


L'incontro degli sheikh ci ha lasciato un po' sorpresi. Evidentemente ci deve essere stata qualche falla nella comunicazione. Il tema dell'incontro era "Come le altre religioni vedono l'Islam e come noi crediamo che le altre religioni vedono l'Islam". Molti dei partecipanti erano sospettosissimi: perchè questo titolo, perchè questo incontro, perchè, perchè, perchè. Il muftì (massima autorità locale, un po' un "vescovo") cercava di avviare il dibattito, spiegando la necessità di un simile incontro. Tuttavia, piuttosto che seguire il filo conduttore dato dal titolo, gli sheikh hanno preferito spaziare dalla storia alla politica, dalle crociate a Saladino, da Maometto a Bin Laden.
Se no ci fosse stato Jonas che traduceva, ovviamente non sarei stato capace di seguire.
Bene o male tutti hanno cominciato col ricordare che il Corano parla delle "religioni del Libro" (ovvero, oltre ai musulmani, anche Cristiani ed Ebrei) e che è dovere di ogni musulmano proteggerli. Altri dicevano che l'Islam soffre molto la mancanza di stati veramente islamici, perché sotto uno stato guidato dalla legge islamica, pace uguaglianza e giustizia sociale sono garantite.
Qui iniziano i problemi: a chi sostiene che "la posizione del Corano è chiara", alcuni ribattono che non lo è affatto, altrimenti non ci sarebbero in giro per il mondo persone come Bin Laden che giustificano la loro guerra personale come un atto di fede. A questo punto, il dibattito si accende. Immancabile, viene fuori lo scontro Ovest vs. Est, in cui l'Est (l'Islam) è la vittima di tutti gli attacchi. I musulmani si sentono attaccati e portano esempi concreti: Iraq, Afghanistan, Iran, Palestina... E' l'Ovest cristiano che attacca, che cerca di distruggere l'Islam. Quindi, per capire cosa fare, occorre guardare al passato.
Qualcuno tira fuori Saladino, il conquistatore kurdo che liberò la Terra Santa dai Crociati. Saladino, dicono, diede il giusto esempio: liberò la Palestina ma, contrariamente a quanto fatto dai crociati che uccisero migliaia e migliaia di persone, Saladino non si accanì contro i Cristiani. Al'epoca, seguendo i dettami del Corano, Saladino ebbe due opportunità entrambe legittime: o tratare il nemico allo stesso modo in cui aveva trattato i musulmani, o perdonarli. Saladino scese il perdono.
Proprio su questa cosa il dibattito si infuoca: uno sceicco sostiene in maniera infervorata che Saladino sbagliò e che avrebbe dovuto rispondere con le stesse armi e la stessa violenza. Se Cristiani ed Ebrei attaccano, non godono più della protezione del Corano e si trasformano in infedeli che devono solo essere combattuti. Altri gli rispondono altrettanto ferocemente dicendo che la qualifica di "infedeli" la davano anche i Crociati ai musulmani e che quindi bisogna evitare di fondere Islam e Politica. "Islam è politica", ribatte il primo.

Quasi tutti, però, sono completamente contrari. Quello che ho notato nei discorsi fatti -basandomi però solo sulle traduzioni, confermate però anche da Noah- è che c'è questa tendenza fra gli arabi a non saper scindere fra politica e religione, fra Occidente e Cristianesimo, fra Stati Uniti e Occidente.

Gli Stati Uniti, sotto il governo Bush, hanno scatenato una guerra internazionale al "terrorismo". Stessa cosa ha fatto Bin Laden. Bush e la sua cricca sono dei fanatici pazzi miliardari che appartengono alla setta evangelica dei cosiddetti "Cristiani rinati" (ovvero dei coglionsi una religione di sana pianta). Che demonizza l'Islam ma sta distruggendo la chiesa cattolica in America Latina (quella Chiesa veramente a fianco della gente, erede delle comunità di base e della Teologia della Liberazione).
Bin Laden e la sua cricca sono dei fanatici pazzi miliardari (e, che strano, soci d'affari nel petrolio con Bush) che appartengono ad una cosa che loro ritengono essere l'Islam. Sputano minacce contro i crociati ma nessuno di loro è un'autorità religiosa (fanno finta di esserlo). Però i primi che ammazzano sono proprio i musulmani.
E' da prima del 2000 che ci rompono le palle eppure, con tutta la tecnologia di questo mondo e tutti i miliardi di dollari in tasca, il saudita Bin Laden non ha fatto uno striscio agli Stati Uniti: le Torri Gemelle se le sono tirate giù da soli (o, quanto meno, non hanno fatto assolutamente nulla per impedirlo, dato che lo sapevano cosa stava per accadere), e Bush ha trivellato con bombe di ogni tipo sia l'Afghanistan che l'Iraq ma i signori Bin Laden, Al-Zawahiri e il mullah Omar che scappa sul garelli sono ancora a piede libero.
Ma la volete smettere di giocare? Datevi appuntamento -tanto vi conoscete benissimo- e per favore scannatevi tra di voi, che ne abbiamo piene le scatole delle vostre balle...

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HEBRON

Stamattina breve esperienza a sud di Hebron. Con Noah siamo andati all'ufficio locale del Ministero dell'Educazione (una specie di Provveditorato) giusto per fare un po' di public relations in vista della ripresa delle scuole e quindi dei corsi del CCRR per studenti e insegnanti.
Tra una tazzina di caffé al cardamomo e un bicchiere di té aromatizzato al timo, abbiamo passato una piacevole mezz'oretta di relax. Io almeno sì, perchè l'arabo non lo parlo ancora così bene da poter sostenere una conversazione o seguirne una, he he!
Comunque, a parte questo, l'altro motivo della visita era vedere da vicino una delle zone più interessate dagli insediamenti israeliani. Fino a pochissimi anni fa, la strada che collega Hebron a Betlemme era chiusa. E' stata riaperta da poco ma sembra di essere in Israele da quanti coloni e insediamenti ci sono: i cartelli lungo la nuova e ben curata strada sono tutti in ebraico, ci sono molti alberi e campi coltivati, villaggi nuovi di zecca...
Ah, giusto: mancavano i palestinesi. Sì, ci sono, ma fuori dal bel quadretto: villaggi scassati, strade di accesso sbarrate o interrotte da mucchi di terra e spazzatura (piazzati dai soldati israeliani), decine di torrette di osservazione, check points volanti, resti di antichi villaggi (qualche pietra, ormai), qualche asino che bruca, bancarelle scassate di frutta e verdura lungo la strada.
Agli abitanti dei villaggi palestinesi, totalmente isolati e ai quali si accede solo da una strada controllata dall'esercito, è precluso l'uso della strada principale. Queste difficoltà logistiche (oltre a tutte le altre) rendono difficile anche lo sviluppo dell'economia.
Ho chiesto a Noah come mai, con tutti i soldi che arrivano dalla cooperazione internazionale, la situazione dei Palestinesi non migliora. "Come può migliorare se ogni volta che viene costruita un'infrastruttura arrivano i soldati e la distruggono. Sono stati spesi milioni e milioni di euro provenienti dall'Unione Europea per rifare le infrastrutture della Cisgiordania e Gaza nel 2000. A Gaza è stato costruito un aeroporto, a Betlemme hanno rifatto mezza città. Per cosa? pochi mesi dopo, con la Seconda Intifada, l'esercito distrusse tutto".
Già.
E l'economia? "Israele controlla l'economia palestinese. Non ci sono aziende palestinesi in grado di competere con quelle israeliane: non hanno la tecnologia e anche se ce l'avessero, la mancanza di infrastrutture e di vie di comunicazione adeguate non permetterebbero lo sviluppo del commercio. Hebron è un buon esempio: era la città industriale della Palestina, oggi quasi tutte le industrie sono chiuse o sono state chiuse".
I prodotti israeliani, poi, godono di incentivi da parte del governo e molto spesso sono anche più economici e di qualità migliore rispetto a quelli palestinesi (ammesso che ci siano degli equivalenti palestinesi). L'ANP non ha la forza per introdurre tariffe a protezione dell'industria palestinese. Se questa volesse svilupparsi e acquistare tecnologia o materia prima all'estero, allora sarebbe Israele con la sua pesante burocrazia a uccidere ogni tentativo di ripresa: confisca dei carichi, ispezioni lunghissime nei porti (che ritardano le consegne, facendo deperire la merce o facendo lievitare le spese di stoccaggio), tariffe.
E' ovvio, quindi, che la gente alla fine compra prodotti israeliani. Boicottarli a volte è impossibile.
All'agricoltura non va certo meglio: i contadini israeliani (e soprattutto i coloni) hanno accesso illimitato (e svergognato, direi) all'acqua e alla tecnologia. I loro prodotti, poi, invadono il mercato locale. Frutta e verdura palestinesi non possono essere commerciati in Israele, al massimo all'interno dei Territori. Ma se per un motivo o per l'altro ai soldati va di chiudere i collegamenti, la merce resta invenduta e va a male, magari anche per le lunghissime ore di attesa sotto il sole.

Che dire...

Boh, finora ho sempre cercato di comprare prodotti palestinesi ma ammetto che è veramente difficile: o perché non ci sono, o perché sono più cari, o perché sono visibilmente più scadenti. Comunque, di solito chiedo: piuttosto compro turco o siriano o egiziano, ma israeliano no!

Vi invito a fare altrettanto: non so cosa ci sia in Italia di prodotti israeliani. Le uniche cose che conosco sono gli avocado, i pompelmi e altri agrumi della Jaffa. Li si riconosce per l'etichetta verde e la scritta gialla.
Ci conto...

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