Ehm... Gli ultimi giorni sono stati un po` pieni quindi nn sono riuscito a venire spesso all`internet point per scrivere. Tuttavia l`ho fatto a casa e ora mi accingo a postare tutto il malloppo. Riprendo dal punto in cui vi ho lasciato, sono quasi 14 pagine (ma manca la giornata di oggi, venerdi`), quindi: buona lettura!
P.s.: sto facendo un sacco di foto, spero di poterle postare prima o poi
"Occupation 101" e narghilé
E' buio, suono il campanello e dalla finestra esce una bambina. Un po' imbarazzato dico solo "Noah Salameh?" e quella, ridendo, mi risponde in inglese chiamandomi per nome e invitandomi ad entrare. Non l'avevo riconosciuta: è Lana, una delle bambine del summer camp. Non sapevo fosse figlia di Noah. La seguo nel fresco giardino dietro casa, dove lui e la moglie si godono il fresco della sera sorseggiando té aromatizzato alla salvia e frutta fresca del loro orto. Chiacchieriamo sulle mie prime impressioni, sul vissuto quotidiano dei palestinesi. Lei mi racconta di quando è stata in Italia per la prima volta, ricorda che era impaziente di vedere il mare. "E' il nostro stesso mare (il Mediterraneo) ma sono dovuta andare in Italia per vederlo, perché qui non ci lasciano". I palestinesi della West Bank, infatti, non possono entrare nella Striscia di Gaza e viceversa.
Dei palestinesi mi stupisce questa loro voglia di vivere "normalmente", come se fossero veramente in pace. Israele cerca di esasperarli, di stremarli affinché se ne vadano (o muoiano tutti, come ha spesso detto qualche ministro dello stato ebraico). Loro, per?, ostinati e stanchi, ormai rispondono con la tranquillità dei gesti quotidiani. Sono esasperati sul serio ma sanno anche che non hanno altra scelta: all'occupazione, la maggioranza ha scelto di rispondere vivendo.
Dopo poco arriva Alex ma senza amiche. In compenso scopro che anche alcune delle animatrici del summer camp (Arwa, Roha e Yara) sono figlie di Noah. Seguiamo Ibrahim nel salotto che, a differenza del resto della casa, è molto più arabeggiante: nella grande stanza con i muri spogli c'è solo un grande tappeto che copre tutto il pavimento e, lungo tutto il perimetro, dei cuscini squadrati a forma di poltroncine. Ci togliamo le scarpe e prendiamo posto. "Io non vengo – esclama Noah sorridendo – questo è un film per giovani. Queste cose purtroppo le ho già viste e vissute in prima persona".
Il film che stiamo per vedere si chiama "Occupation 101" e credo sia una produzione statunitense. Si tratta di un toccante documentario sull'occupazione israeliana della Palestina, di come storicamente si è arrivati a questa situazione e di cosa significa concretamente per i palestinesi. L'introduzione fa un parallelo storico con vicende simili: Irlanda del Nord, Stati Uniti, Algeria, India, Sudafrica. Repressione, violenza, terrore, carcere. Gandhi, Mandela, Luther King. Palestina.
A parlare non sono palestinesi (esclusa qualche testimonianza) ma principalmente giornalisti, avvocati e religiosi statunitensi e israeliani. Fra gli altri: Noam Chomsky (genio statunitense, intellettuale), Ilan Pappe (storico israeliano), Amira Hass (giornalista di Haaretz). Sono tutti ebrei. Ci sono anche altri statunitensi e israeliani, alcuni cristiani, altri sono funzionari o ex ambasciatori, pure dei rabbini. Non solo sono contro l'occupazione, non solo condannano le atrocità commesse da Israele contro il popolo palestinese. Indicano anche i colpevoli: l'amministrazione USA (che da ogni anno a Israele un totale di finanziamneti superiore a quelli che elargisce a tutti gli altri stati del mondo messi insieme: più di 10.000 dollari per cittadino in Israele contro gli appena 59 per il resto del mondo). E le le lobbies ebraica (AIPAC) e le associazioni fondamentaliste cristiane statunitensi. Per inciso: spero che, citando la sigla esatta, non mi si accusi di "antisemitismo" per aver osato parlare della lobby ebraica. Con "lobby ebraica", infatti, non intendo dire "gli ebrei" ma proprio quella specifica associazione (e le sue consorelle).
Le immagini sullo schermo sono spaventose: gli insediamenti, le violenze contro donne e bambini, la demolizione di case e la distruzione dei campi, aerei e carri armati contro fionde e fucili. Soldati israeliani che cercano di rompere le braccia con feroci colpi di pietra ad un prigioniero inerme. Si mettono a confrono la vita nei campi profughi di Gaza e quella nei ricchi insediamenti dei coloni. Israele non si pu? considerare una democrazia. Tecnicamente non lo è: solo gli ebrei, infatti, godono pienamente della loro cittadinanza. Agli israeliani di origine palestinese non sono garantiti gli stessi diritti, sono considerati cittadini diversi. Un esempio lampante è il fatto che molti diritti di cittadinanza dipendono dal compimento del servizio di leva obbligatorio. Dal quale, per?, sono esclusi i palestinesi. E molti lavori (soprattutto nel settore pubblico) sono solo per chi ha serivito nell'esercito. Uno stato basato sull'appartenenza religiosa non pu? essere considerato una democrazia, nonostante usi mezzi democratici per i propri cittadini come le elezioni. Anche qui, ad esempio, agli arabo-israeliani è vietata la possibilità di formare partiti politici. Democrazia è partecipazione, diceva Gaber. Non esclusione.
Fra le testimonianze che mi incuriosiscono principalmente c'è quella di un ebreo ortodosso di Gerusalemme che, durante una manifestazione contro l'occupazione dice: "Mia nonna mi raccontava che prima della formazione dello stato di Israele noi e gli arabi eravamo fratelli: vivevamo insieme, andavamo negli stessi posti, le nostre famiglie si prendevano cura dei figli delle altre. Non è l'ebraismo che ha creato il problema che c'è ora, non è il giudaismo, non sono gli ebrei, non sono gli arabi: il problema è stato il Sionismo". Un militante ebrea per i diritti umani, invece, racconta dell'accoglienza che trova ogni volta che si reca presso famiglie palestinesi. "Sono dolci, molto gentili e affettuosi".
E anche sulla questione degli insediamenti bisogna puntualizzare un po': non è detto che tutti i coloni siano dei pazzi estremisti. Certo, ce ne sono parecchi che sono veramente convinti della natura "divina" della loro missione, ovvero riconquistare tutta la Palestina (ovvero la "Terra Promessa", che è anche più ampia) e riformare il regno di Israele. Tanti altri, per?, decidono di andare a vivere negli insediamenti soltanto perché il governo dà loro molte agevolazioni fiscali e grossi incentivi economici. Per questi ultimi, quindi, non si tratta di un fatto politico ma meramente economico. D'altronde è difficile dar loro torto: se il governo ti paga tutto e tu non hai un centesimo, ci sputeresti sopra? Sono sicuro che fra gli abitanti degli insediamenti ci siano anche parecchi argentini ebrei: 4 anni fa, mentre ero a Buenos Aires, usc? un film intitolato "El abrazo partido" (l'abbraccio diviso), ovvero la storia di un giovane argentino ebreo non praticante che, dopo la crisi del 2001, decide di andare a tentare la fortuna in Israele. Per lui non era una questione di fede o di politica: voleva solo approfittare di un'opportunità per sfuggire dalla miseria. La stessa cosa che fecero le migliaia di ebrei che scappavano dall'Europa nazi-fascista durante la Seconda Guerra mondiale. Peccato solo che le naturali necessità di quelle persone in fuga siano state il pretesto politco per rubare la terra ad un popolo che non avrebbe di sicuro avuto nulla in contrario ad aprire le proprie case. Arabi ed ebrei, in fondo, hanno vissuto insieme per secoli senza alcun problema. Anche in Palestina. Probabilmente sarebbe più facile per gli israeliani vivere con i palestinesi che non fra di loro. La società israeliana, infatti, è una delle più frammentate al mondo: incomprensioni e rivalità fra ashkenaziti e sefarditi; scontri politici e sociali fra laici, ortodossi e ultraortodossi (alcuni di questi, paradossalmente, non riconoscono lo Stato di Israele è di natura umana e non divina); grande stratificazione sociale e pure razziale (gli ebrei di origine araba e africana sono l'ultimo gradino della piramide sociale)...
Ovviamente nel film si parla anche dei suicidi di militanti palestinesi di alcune fazioni politico-militari, le cui vittime sono quasi sempre civili. "E' spaventoso – racconta Amira Hass – ci? che si vede. E' terribile vedere le immagini dei morti e dei feriti". Dice la giornalista di Haaretz che bisogna condannare quegli episodi. Ma sarebbe un errore, prosegue, non collocarli nel contesto più ampio dell'occupazione israeliana e delle violenze e privazioni cui sono sottoposti i palestinesi. Non voglio difendere gli attentatori suicidi: ho sempre sostenuto che se proprio bisogna fare la guerra che siano i soldati a spararsi fra loro, e soprattutto i loro capi. Per?, facendo un paragone delle armi a disposizione, le forze sono dispari: centinaia di carri armati, elicotteri da combattimento, aerei da caccia e armi sofisticate contro kalashnikov, molotov, candelotti di dinamite, qualche scassato razzo qassam e sassi. Lungi da me giustificare gli attacchi ai civili: il diritto internazionale parla chiaro in proposito (e cioè: la sfera civile -popolazione, infrastrutture ed edifici- deve essere lasciata FUORI dalle azioni belliche). Ma come giustamente condannano gli attacchi che provocano vittime fra i civili israeliani, i paesi occidentali dovrebbero essere meno ipocriti e condannare altrettanto fermamente anche ogni azione militare e politica israeliana, perchè ogni volta che Israele si muove è solo per colpire la popolazione civile palestinese. (E libanese, come due anni fa).
L'ultima parte del film è dedicata alla situazione disperata della Striscia di Gaza. Da quando Sharon decise lo smantellamento di tutti gli insediamenti (una magistrale opera di propaganda), Gaza è diventata un vero e proprio inferno, dove il Cerbero israeliano ha potere di vita e di morte, ne controlla in maniera ferrea i confini, cos? come lo spazio aereo e persino la costa. Lo smantellamento fu veramente solo un atto propagandistico, passato in mondovisione come un serio tentativo per cercare la pace. Le struggenti immagini dei coloni ultraortodossi che si dimenano per sfuggire agli sgomberi dei soldati, in realtà nascondevano I piani già decisi della costruzione del Muro e di ulteriori nuovi insediamenti illegali nella West Bank e soprattutto a Gerusalemme est.
Dell'accanimento contro Gaza e i suoi abitanti è stata vittima anche una giovane ragazza statunitense, Rachel Corrie, di soli 23 anni. Per fermare la demolizione di una casa palestinese, Rachel si piazz? davanti alla porta cercando di fermare una ruspa israeliana. Che, per tutta risposta, non accenn? nemmeno a fermarsi e la travolse uccidendola. Mi ricordo di quel fatto, successo non molti anni fa. Purtroppo, per?, la cosa più choccante non è stata la morte terribile di Rachel ma il rifiuto del suo governo (quello degli USA) di condurre un'inchiesta sull'avvenimento. Tanto è lo strapotere della lobby ebraica? Sembra proprio di s?.
Inutile dire che l'angoscia è enorme. Nonostante la conclusione lasci spazio a qualche speranza. Alex è quasi senza fiato, io senza parole. "E' terribile – dice – e come cittadina degli Stati Uniti mi sento cos? colpevole". Già. Per? Alex è qui per lavorare con i palestinesi e gli autori di "Occupation 101" sono statunitensi. Ulteriore dimostrazione (anche per me, che a volte da quell'orecchio non ci sento) che i colpevoli non sono i popoli, semmai i loro governanti.
E' un po' surreale sentire qualche risatina e soprattutto l'invito di Ibrahim ad andare fuori a divertirsi un po', magari andando a bere una birra (s?, c'è la birra in Palestina e per di più buona e soprattutto prodotta localmente!) o facendo una tirata di narghilé. Pensandoci bene, per?, ha ragione lui: contorcersi il cervello e lo stomaco con i sensi di colpa e impotenza porta a ben pochi risultati. Se poi uno queste cose le vive ogni giorno, meglio cercare di sgomberare la mente: condizione essenziale per cercare quella tranquillità e quella normalità che l'occupazione cerca di portarti via.
In macchina usciamo da Bethlehem passando per polverose strade di campagna che si inerpicano tra le colline ricoperte di sassi e ulivi. "Mettete la cintura, fra poco c'è la polizia israeliana" ammonisce Ibrahim. Poco più avanti, infatti, c'è una specie di "zona di frontiera" che altro non è senn? una di quelle tantissime aree della West Bank sotto diretto controllo israeliano. Il motivo? Beh, di solito perchè c'è qualche insediamento di coloni ebrei. In questo caso perchè passa una delle tante strade ultrailluminate che collegano gli insediamenti. Il filo spinato e le varie barriere tutto intorno ci ricordano che ai palestinese sono interdette: uso esclusivo di coloni e militari. Anche questa è l'occupazione.
P.s.: alcuni film e documentari -molti si trovano in internet, altri cercando nelle videoteche- sul conflitto israelo-palestinese sono, oltre ad Occupation 101: Jenin Jenin (documentario sull'attacco subito dalla città pochi anni fa, in seguito al quale è quasi stata rasa al suolo); Paradise Now (film sulla storia di un aspirante suicida palestinese; vincitore di numerosi premi nei festival del cinema all'estero); Private (film italiano, di Saverio Costanzo, che racconta l'incredibile vicenda di una famiglia di palestinesi che deve sopportare l'occupazione del secondo piano della propria casa da parte di una pattuglia di militari israeliani). Buona visione
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Ospitalità
Oggi di nuovo al Summer Camp. Mi ero messo d'accordo con un ragazzino che abita qui vicino, Baker, per andare al centro insieme, in taxi. Mi aspettava alle 10, io avevo un paio di minuti di ritardo. Scendendo le scale trovo Abu Wahid che, con I suoi grandi sorrisi e i modi di galantuomo, mi saluta con frasi miste di arabo e inglese. "5 parole al giorno devi imparare. Io ti insegner?". Da ieri ci si sono messi pure i bambini in particolare Hamsa, che mi parla solo in arabo. Inizialmente perplesso, l'ho poi presa come una provocazione che mi ha fatto momentaneamente sbottare: "Ti ho detto che non parlo arabo!". Poi, per?, ho capito che era meglio buttarla sul ridere, e cos? ho fatto conquistandolo (almeno credo). Gli altri ci provano in tutti i modi ad insegnarmi ma i suoni dell'arabo sono talmente difficili che faccio fatica a pronunciarli, altrettanta fatica ad immaginarmi come scriverli e quindi è ulteriormente difficile immagazzinarli nel cervello. Almeno so salutare, ringraziare e chiedere pane, acqua e dov'è la casa di qualcuno. Sempre meglio di niente.
Di Baker non c'è traccia. Pazienza, vado a piedi. Per?, visto che non mi ricordo come arrivare, forse meglio chiamare Ibrahim. Non risponde. Amen, ci penserà la divina provvidenza. Spero, perché non so neanche come si chiami il posto. E anche se lo sapessi e volessi prendere un taxi, ho lasciato i soldi a casa. Cammino e cammino, fa caldo a Bethlehem. Mancano solo 5 minuti, chissà dov'è il posto. Eccola la divina provvidenza: vedo delle braccia agitarsi in un taxi. Sono Wafa e Alex. "Ma cosa fai a piedi con questo sole?". Eh, cosa faccio, cammino e vado al centro. "S?, ma siamo in ritardo e manca un sacco, dai sali". Corro! In effetti, a occhio e croce, sarei arrivato dopo un'ora...
Giornata un po' di svacco i ragazzini sono quasi tutti in straritardo e per di più non è ben chiaro cosa bisogna fare. So solo che dovremo continuare con i preparativi per il "final event" del 23 sera, che sarà pubblico. Il nostro gruppetto dei "grandi", ad un certo punto, viene chiamato a realizzare dei disegni. La consegna non mi è ben chiara e, nonostante un paio di delucidazioni, continua a restarmi oscuro lo scopo. Cos? resto l? a guardare I ragazzi scarabocchiare finché Wafa mi chiede se so disegnare e se ne ho voglia. Ok, ma che cosa? Qualsiasi? Ah, vabbé, mo' ce provo. Rimugino e rimugino finché decido di darci direttamente di tempera alla "macchiaiola" (emulando gli avi della mia Silvietta) e dipingo il laghetto con le ninfee di Breda di Piave, che la cagnetta Liri reputa il suo piccolo Luna Park privato. Esecuzione semplice e molto grezza che per? piace. Devo farne altri? Ok. Stavolta vado sui miei astratti con la penna biro, iniziati alle superiori durante una lezione noiosissima. Si tratta di linee, forme geometriche, sfumature, bollicine e riflessi monocromatici. Incasinati e senza logica ma con una certa armonia. "Fanaa", mi sento apostrofare. Significa "artista". "Nooo, macché artista! Sono solo linee" ripeto. Altri altri, quanti riesci a farne? Fanne ancora. Ancora? La mano mi trema! E vabbé, ci provo... Maledetta quella volta che ho deciso di fare i disegni astratti con la biro...
I bambini, intanto, disegnano, dipingono, pastrocchiano di tutto. Immancabili le bandiere palestinesi come anche i classici disegni del sole dietro le montagne. Alcuni sono molto belli e colorati. Per?, con questo sole, stare in classe a disegnare è uno spreco. Infatti nel pomeriggio siamo rimasti soltanto noi animatori ad eseguire freneticamente ogni sorta di schizzo per il "final event".
Alle 5 del pomeriggio, stufo marcio, mi incammino con Baker sulla via di casa. Ha 14 anni ma parla un buon inglese (a tratti meglio del mio, vergogna!) e ha una buona percezione del mondo. Mi racconta un sacco di cose su Bethlehem, su come vede il conflitto. Passo dopo passo, ulivo dopo ulivo, siamo arrivati. Mi invita a casa sua, dove ci sono la madre e la sorellina appena nata. La madre è a dir poco entusiasta, mi accoglie come se non mi vedesse da una vita. Mi chiede se voglio mangiare, mi offre del riso e un po' di kebab. Veramente ho solo sete, vorrei solo un bicchiere d'acqua. Pronti. Parliamo e parliamo, chiede cosa faccio, da dove vengo, ecc. Poi le chiedo di loro. Il marito, prima di sposarsi, è stato tre anni in carcere. La sorella vive a Gerusalemme ma, a causa del Muro e dei nuovi checkpoint e insediamenti, riesce a vederla molto ma molto di rado. Racconta con un po' di tristezza del futuro limitato per I ragazzi, senza prospettive né lavoro. E della sofferenza di molte famiglie (a Gaza, in particolare) che patiscono fame e miseria. Nei partiti politici ci crede poco, delle chiacchiere non si fida. Hamas? Che senso ha? Fatah? Finché non vede mantenere le promesse non ci crede. Abu Mazen? Sembra che ci provi a fare qualche cosa, ma finora sono solo parole. "Cosa possiamo fare? Ci resta solo la speranza, ormai viviamo di speranza".
Loro per? stanno bene, "per fortuna" dice. Sono riusciti a mettere via qualche soldino e ora possono permettersi di investire. Un po' andranno per l'università di Baker, un po' in una piccola palestra che aprirà fra poco. "Quando è pronta ti diciamo, cos? vieni a farti i muscoli!". Poi mi arrivano due inviti: uno a pranzo o a cena, quando voglio (ma devo promettere che ci andr? sul serio, non "s? va bene" e poi non mi faccio vivo), perché ormai sono di casa. E l'altro per il mese prossimo: loro hanno una tessera che li qualifica come artigiani e c'è un grosso festival multiculturale a Gerusalemme al quale partecipano ogni anno. Hanno una bancarella in cui, indossando gli abiti tradizionali, vendono pane arabo casereccio con olio d'oliva e lebaneh (una specie di formaggio fresco spalmabile). Andrei con loro come "aiutante", cos? al checkpoint non avrei problemi (e non pagherei l'entrata). E poi, una volta l?, potrei girare liberamente ovunque, incontrare gente di tutti I paesi e godermi Gerusalemme in un giorno di vera pace. Beh, ovviamente accetto con enorme entusiasmo entrambi gli inviti! Shuqran (grazie)!
Mi piace sempre di più questa Palestina...
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Welcome to Palestine (checkpoint permettendo...)
L'altro ieri era il grande giorno dell'ultima gita, con tanto di pernottamento. Meta dell'escursione: Nablus. Ok, Nablus. Cosa ci sarà mai di interessante a Nablus? Prendiamo la guida del Touring Club e diamo un'occhiata. Nablu, Nablus, Nablus... Ah, ecco. L'introduzione su Nablus. "Sulla pianura domina il monte Garizim, ritenuto dai samaritani il vero luogo del sacrificio di Isacco. La biblica Shekhem (antico nome di Nablus, n.d.r.) è il luogo del pozzo di Giacobbe, dove Gesù incontr? la Samaritana." ... Ah...
A quanto pare è stata fondata circa 4000 anni fa (quattromila!), per un periodo vi era custodita l'Arca dell'Alleanza (!) e vi sarebbero seppellite le spoglie di Giuseppe (quello venduto dai fratelli al faraone...). Ah, per finire il famoso Buon Samaritano era dei dintorni. Pu? bastare? Cos'è rimasto di tutto ci?? Due porte di accesso alla città risalenti al periodo degli hyksos (un antico popolo di origini egiziane che ha "civilizzato" tutta la Palestina, attorno al XVIII secolo a. C.) resti delle mura ciclopiche (1650 a.C.), le fondamenta di un tempio che corrisponderebbe a quello di Baal (citato nella Bibbia, del VII sec. a.C.), le rovine del tempio romano di Zeus (136 d.C.) e, poco distante, i resti di quello che dovrebbe essere il pozzo dove Gesù incontr? la Samaritana e vicino al quale sarebbe seppellito Giuseppe. Insomma, roba da far tremare i polsi anche al più ateo sulla Terra!
Sempre sulla guida leggo a sprazzi qua e là notizie su questa piuttosto che su quella località. Beh, intanto ho scoperto che il nome "Palestina" deriva dai Filistei (s?, quelli di "muoia Sansone con tutti i filistei!") popolo indoeuropeo che aveva fondato varie città sul mare nei dintorni di Gaza. Proprio a Gaza, tra l'altro, si sarebbe svola l'epico scontro tra Davide (ebreo) e Golia (filisteo). Che continua anche oggi ma a parti rovesciate.
Fa un caldo impressionante. Mi sveglio con calma e mi preparo e, prima di partire, saluto Abu Wahid che mi insegna un altro paio di parole in arabo. Nel frattempo arriva Baker e quindi si parte. Arriviamo al centro dove c'è già il pullman che ci aspetta ma manca ancora gente. Tanti ritardatari, come al solito (meno male, cos? mi sento un po' meno colpevole!).
Mezz'oretta dopo si parte ma ci fermiamo subito per una tappa al CCRR, al panificio (per delle brioches) e in un take-away dove Amer e Ibrahim comprano pane e falafel (polpettine di ceci) per tutti. Il viaggio sarà lungo e particolare. Appena usciti da Bethlehem ci imbattiamo in un enorme e bruttissimo insediamento di coloni che domina una collina (ormai tutta di loro proprietà, a giudicare dall'abbondanza di filospinato). Il paesaggio diventa più brullo e arido; a volte le colline sono coperte da arbusti e sassi, accompagnati da uliveti e alberi di eucalipto, fichi e fichi d'india. A volte non c'è proprio nulla e altre, invece, si vedono solo quelli che erano i tronchi di alcuni alberi (gli israeliani si accaniscono anche contro gli ulivi e gli altri alberi palestinesi). Spesso incontriamo dei pastori, con piccoli greggi di pecore e capre, e qualche asino. Ogni tanto, invece, appare qualche tenda di beduini e, completamente isolati da tutto, dei tuguri fatti di lamiere, assi e rottami vari, circondati da qualche asino e capre.
La strada serpeggia in quello che inizia a diventare un vero e proprio deserto. Il cielo di un colore azzurro intenso e senza nuvole, le colline brulle e polverose e i rari e tenaci arbusti mi portano con la mente alla mia Patagonia natia. Questi paesaggi sono cos? simili, cos? stranamente somiglianti. La Patagonia, per?, è più ventosa e più rossa. C'è un altro particolare che accomuna queste due terre: il filo spinato. Qui in Palestina il filo spinato taglia via grandi fette di terra per darle in pasto ai coloni ebrei. L? in Patagonia, il filospinato delimita le immense proprietà dei latifondisti. Oltre il filospinato non si va. Palestinese, argentino, mapuche: che tu sia nato in quella terra non importa più, ormai non ti appartiene. Te l'hanno portata via? Non hai più alcun diritto di reclamarla, se provi solo a pensarci sei già passato dalla parte del torto. Palestinese, argentino, mapuche: di terra ce n'era per tutti, ma non immaginavi che non ce ne sarebbe più stata per te. Straniero in casa tua, che ormai tua non è più.
La mia fantasia viaggia, il pullman non mi porta più a Nablus: queste sono le colline che da R?o Mayo portano al lago Colhue-Huapi di Sarmiento. Immagino un condor che ci taglia la strada e un ?and? che fugge spaventato dal rombo del motore diesel. E quando sono quasi sicuro di trovare un guanaco, mi accorgo che in realtà si tratta di ... un dromedario! Beh, un po' somiglia al guanaco (sono entrambi camelidi) ma questo è più bruttino e ha un gobbone sulla schiena. Ne vediamo vari, mentre i cartelli stradali in ebraico-arabo-inglese ci avvertono che siamo in prossimità del Mar Morto.
Intanto, a bordo i ragazzini chiacchierano, ridono e battono le mani ascoltando ininterrottamente la stessa cassetta di musica araba. Alcuni battono le mani a ritmo e altri ballano. La danza è un must per i palestinesi: si muovono al ritmo di qualsiasi cosa. Alzano le braccia, scuotono le mani, agitano fianchi e spalle, sbattono i piedi. Ballare è parte integrante della lingua, tanto che persino i bambini (nessuno escluso) ballano come gli adulti.
Questa zona della West Bank è praticamente di uso e consumo degli israeliani: le bandiere con la stella di Davide reclamano il possesso della strada, degli insediamenti, dei distributori di benzina, della colline e di tutto ci? che c'è fino al vicino confine con la Giordania. Passiamo chilometri e chilometri di lussureggianti campi e piantagioni recintati e custoditi da soldati. Alberi, palme da dattero, serre, ulivi, frutteti... I cartelli sono solo in ebraico, le bandiere solo quelle di Israele. La terra palestinese. A volte siamo in una specie di "zona di confine" che fa risaltare il contrasto stridente che c'è. Da un lato ricchezza, acqua, cancelli, filospinato e tanto verde. Dall'altro colline aride, sassi, alberi tagliati, rifiuti.
Il viaggio è lungo, passiamo attraverso vari villaggi palestinesi (alcuni miseri, con varie zone fatte solo di baracche di lamiera), con le baracche dei venditori di frutta e verdura che arrostiscono al sole.
Arriviamo al primo checkpoint. Nervosamente tiro fuori il mio passaporto. Nel dubbio ho anche le letter dell'università. Si aprono le porte, sale un giovanissimo soldato israeliano impolverato, con il mitra a tracolla . Ha un po' di barba e un'espressione stranamente dolce. Confabula con Amer, guarda con una specie di mezzo sorriso innocente I bambini e dicendo che è tutto ok saluta e ci fa passare. Si chiudono le porte. Tre, due, uno. Urlo di gioia!
Passano varie ore di saliscendi, di deserto, di capre e cammelli. Alex si raggomitola in una poltroncina. "Non voglio vedere – dice – questa è la materializzazione della mia visione dell'inferno!". Pochi chilometri ci separano dalla meta, per? prima c'è l'ennesimo checkpoint. Stavolta non sale nessuno. Ci fanno passare. Le auto palestinese che arrivano in direzione opposta guardano con curiosità il pullman pieno di bambini. Cosa saranno venuti a vedere in mezzo a questi villaggi sperduti, si domanderanno. Ci siamo. Scendiamo un attimo per qualche acquisto e si riparte. I bambini hanno comprato vagonate di schifezze ultradolci o salate: patatine (pringles), merendine, snacks (snickers), bibite gassate (coca-cola) e bevande energetiche tipo red-bull... Come a suggellare la loro somiglianza con i coetanei occidentali, nel pullman impazziscono quando l'autista mette su "Barbie girl" degli Aqua (sigh) o altra musicaccia commerciale da discotecari truzzi.
Come anticipatomi da Amer e Ibrahim questa mattina, andremo ad alloggiare in un centro per la gioventù che fino a non molto tempo fa era un carcere politico. In effetti, sto casermone ha tutta l'aria di essere un carcere, anche se ritoccato e trasformato. E' pomeriggio inoltrato, fa caldo e voglio solo dormire e rinfrescarmi un po'. Facciamo conoscenza del posto, che visto da vicino fa un po' meno paura. Bandiere palestinesi, ritratti di "martiri" sui muri esterni e poster di Arafat e Abu Mazen su tutti i muri caratterizzano questo posto, rimodernato con i fondi di Usaid.
Il resto del pomeriggio lo passiamo a giocare e a preparare il final event divisi in gruppetti. Amer mi invita a seguire Wafa e alcune ragazzine nelle stanze delle bambine. Da quanto ho capito devono provare una coreografia. Nell'angusto spazio tra i letti e l'entrata provano ma hanno bisogno di ulteriori chiarimenti perché alcuni passi non riescono. Finché Wafa decide di intervenire in prima persona che dando loro la carica e l'esempio dei movimenti. La musica è molto particolare perché molto diversa dalle classiche canzoni arabe. Ovviamente non capisco il testo ma i gesti della danza non lasciano spazio a dubbi: gesti di lacrime, di passi militari, braccia aperte verso la terra, mani che sventolano bandiere immaginarie o impugnano saldamente spade, pugni alzati al cielo, sguardi decisi. Wafa mi chiede cosa ho capito della canzone pe pr poi tradurmi il testo di quella che è la più popolare canzone della Resistenza palestinese. Le parole, le immagini, le emozioni e il messaggio di libertà trasmessi da questa canzone sono come quelli di un'altro celeberrimo canto di Resistenza: Bella Ciao. Facendo due chiacchiere mi dice che è palestinese di origini giordane, che la sua è una di quelle famiglie che hanno sofferto parecchio per l'occupazione e tutt'ora sono molto limitati soprattutto nei movimenti (le autorità israeliane, ad esempio, hanno vietato loro di avere la carta d'identità palestinese). Le si illumina il volto quando le racconto che abito vicino a Venezia ("Il mercante di Venezia" è l'opera di Shakespeare che preferisce) e dice che il suo sogno è quello di visitarla un giorno. Anche per per bere i famosi vini italiani: la ragazza adora la bevanda di Bacco ma non disprezza nemmeno quella di Gambrinus, a quanto pare!
Dopo un po' arriva il momento della cena. I cuochi hanno preparato un piatto a base di riso condito con carne macinata, verdure e arachidi tostate con contorno di pollo. Delizioso. La cosa che un po' mi ha lasciato interdetto è che i ragazzi mangiano velocissimi (la cena non dura più di 10 minuti) e soprattutto sprecano e buttano via un sacco di cibo. Questo, onestamente, non me lo sarei aspettato. Sarà perchè a Bethlehem tutto sommato non si sta male. Per? ugualmente non mi sembra un bel comportamento.
Beh, visto che finora ho quasi sempre tessuto le lodi dei palestinesi, approfitto per parlare un po' delle cose che mi sono sembrate negative. In primis ci metto la sporcizia: le strade e le campagne palestinesi sono veramente sporche. La gente ha la pessima abitudine di buttare i rifiuti (di qualsiasi tipo) ovunque. Tanto che alcune zone sono delle vere e proprie discariche e in alcuni angoli delle strade bisogna persino trattenere il fiato. Anche le strade del centro sono sporche e puzzolenti. Putroppo c'è anche da dire che mancano i cestini e i bidoni della spazzatura sono pochi; parlare di raccolta differenziata credo sarebbe semplicemente vano. Per non parlare, poi, dell'abuso di sacchetti di plastica (e di oggetti usa-e-getta): il concetto di riuso è praticamente inesistente. La cura meticolosa delle case private, poi, stride profondamente con la mancanza di rispetto per i beni pubblici. Basti vedere i telefoni: quasi nessuno funziona (ammesso che ci sia). Gli edifici pubblici credo soffrano tutti della mancanza di una necessaria e adeguata manutenzione: la scuola in cui si svolge il summer camp o anche questo centro di Nablus (entrambi restaurati di recente) sono molto trascurati, sporchi e spesso tante cose sono rotte e lasciate l? (banchi, sedie, porte, finestre...). Infine, noto spesso una mancanza di programmazione e il frequente abuso del ritardo (se in Italia è sempre mezz'ora dopo l'orario previsto, qui è addirittura un'ora dopo). Credo che la causa di questa trascuratezza sia da cercare sia nella mancanza di una forte entità pubblica (l'ANP esiste solo sulla carta) sia nella valanga di fondi che arrivano dalla cooperazione internazionale e che di sicuro continueranno ad arrivare. Probabilmente quello palestinese è uno di quei casi in cui la cooperazione, più che aiutare, rovina.
Ovviamente ci sono sempre i dovuti distinguo da fare: Abu Wahid, ad esempio, tiene smepre le carte delle caramelle in tasca e aspetta di tornare a casa per buttarle nel cestino. La puntualità, infine, è un suo pallino: farebbe un baffo anche ad uno svizzero. Abu Wahid è una persona carismatica, e mi incuriosice molto: è un musulmano molto osservante (si reca in moschea tutte le 5 volte giornaliere previste), ha una cultura molto elevata (è stato professore, ha studiato legge e parla un ottimo inglese) ed ha un cuore enorme. La sua profonda e intelligente religiosità lo porta ad essere molto gentile, onesto, fiero e aperto. Insomma: è la dimostrazione vivente che la religione, qualunque essa sia, se vissuta correttamente non pu? mai condurre a guerre e violenze.
Chiusa parentesi. Ritorno all'ex carcere di Nablus. Dove, scopriamo, il nostro Amer è stato prigioniero. L'edificio, infatti, è stato usato dall'esercito israeliano come prigione politica per i giovani militanti palestinesi. Dev'essere molto particolare per lui essere di nuovo qui ma da uomo libero. Chissà cosa sta provando in questo preciso momento... Tuttavia non fa trasparire nulla. Anzi: dirige bene la "prova generale" dello spettacolo del 23, che riesce molto bene per la gioia ed il divertimento di tutti. Per festeggiare, mette la musica a tutto volume scatenando le danze dei ragazzi. Che trascinano in pista anche Alex e me, un po' restii a muoverci. A volte mi sento un latinoamericano molto strano a causa della mia quasi "repulsione" per la danza. E' che proprio non mi so muovere. Ho l'elasticità di un tronco, pur avendo (almeno credo) il senso del ritmo. Peccato, ci ho pure provato ma ballare mi mette a disagio.
Con il calare della notte e della stanchezza, Amer approfitta per un momento di riflessione. In mezzo al cerchio, sul pavimento, accende tre candele attaccate per sopportare il soffio della brezza serale. Da questo punto fino alla fine non capisco più nulla perché si parla solo in arabo. Chiama uno ad uno i ragazzi a dire qualche cosa. Chiama anche me e, un po' imbarazzato, chiedo che cosa devo fare. Ibrahim mi dice di provare a dire che cosa mi viene in mente guardando le candele. Pensando al posto, al titolo del summer camp, a dove sono, al vento che cerca di spegnere le fiamme flebili, dico solo "Con questo vento, direi Resistenza". So di essere un po' "tarato" su certi temi, ma la suggestione è tale che penso solo alla valenza politica della mia presenza qui. Amer parla, a turno i ragazzi si esprimono, tenendo il capo chino e gli occhi chiusi. Qualcuno inizia a singhiozzare, i pianti si moltiplicano. L'unica cosa che mi viene da pensare è che stiano ricordando qualche loro caro, vittima dell'occupazione.
Quando tutto finisce, chiedo cosa sia successo e il motivo dei pianti. "E' solo che sono tristi perché il campo è finito". ?!? Ma... Mmm... Vabbé.
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Ci svegliamo mezzi rincoglioniti alle 8.30. Anzi, a dire il vero è il vocione di Amer che dice "Jorjo good morning" a farmi alzare. S?, Jorjo. Qua mi chiamano cos?. Pensavo che finalmente qualcuno mi avrebbe chiamato nel modo giusto, visto che gli arabi la "J" spagnola la sanno pronunciare. Stavolta, per?, il problema l'ha creato la "e" finale. Non so perché. So solo che per i palestinesi sono "Jorjo".
Il risveglio collettivo è lentissimo, roba da bradipi. La colazione è circa un'ora e mezza dopo. Colazione, tra l'altro, molto poco mediterranea e piuttosto "nordeuropea": pane arabo e mortadella (ma non di maiale!), lebaneh con olio d'oliva, cetriolini sott'aceto, uova sode con cardamomo macinato e caffellatte o té. Ripresomi dall'iniziale stupore, anche se un po' riluttante mi butto con cautela sul salume. Un po' alla volta ci prendo gusto e mi concedo il bis con l'uovo. Poi, per?, mi bevo un mezzo litro d'acqua per mandare giù il tutto. Anche in questo caso, purtroppo vedo grandi sprechi di cibo.
Per ingannare il tempo, inizio a raccogliere bottiglie, cartacce, bicchieri e spazzatura varia, per dare un aspetto più decente al cortile. Chissà se durerà. Poi, con il sole che inizia a battere inesorabilmente, andiamo a giocare a pallone, un po' nel campo da calcio e un po' in palestra. In quest'ultima assisto alla materializzazione della confusione. I presenti decidono se giocare a calcetto, a volley o a basket. Quasi l'unanimità vota basket. E infatti si gioca a volley. Si formano le squadre, che cambiano ogni due minuti. Si iniza a giocare e le regole si modificano ad ogni battuta, mentre si gioca, e senza che nessuno ci capisca niente. Le linee del campo valgono o non valgono, non si capisce in base a cosa. Se prima una giocata era regolare, quella successiva -l'esatta replica- non va più bene. Salta qualsiasi regola: praticamente non esiste il gioco di squadra e soprattutto non esiste la pallavolo, alla battuta va chi prende il pallone per primo e alla ricezione si pu? prendere la palla anche due volte. Insomma: la totale anarchia.
Dopo una mezz'oretta si vota di nuovo: ancora basket. E infatti si gioca a calcetto. Si fanno le squadre ma nessuno ha capito con chi è e soprattutto a cosa si gioca. Disorganizzazione pazzesca... In quanto "leader" cerco di contenere lo sbando ma parlo al vento. Per fortuna ci pensa Wara a farla finita con la mia rassegnata disperazione, chiamandoci a raccolta in vista della partenza. Caricati i bagagli partiamo. La meta è Nablus. Io pensavo di esserci già, fa niente. Mezz'oretta dopo arriviamo in questo caotico centro, piuttosto grande. Purtroppo ci stiamo solo per poche decine di minuti, e facciamo un giro a piedi tra le ricche bancarelle del mercato che si dirama tra vicoli e tunnel. Spezie, sementi, narghilé e accessori in legno d'ulivo e metallo, vestiti, pane e dolci, falafel e shawarma, carretti, cd, kefiah di vari colori, poster di martiri e persino dei giubbotti mimetici come quelli che di solito usano i kamikaze. Onestamente, vedere quei giubbotti e un paio di vecchi poster di Saddam Hussein mi mente un po' a disagio. Anche alcuni ragazzi si accorgono dei giubbotti e rimangono stupiti ma la buttano sul ridere. I più stupiti, per?, sono proprio gli abitanti di Nablus ma perché evidentemente non sono abituati a vedere scolaresche o comitive di turisti. L'arrivo dei ragazzi, in effetti, ha creato un certo scompiglio: tutti si fermano per strada, escono dai negozi, confabulano guardandoci. Un anziano signore con classico vestito arabo mi prende spontaneamente per un braccio e, guardando la fila dei ragazzini che si aggira per le vie di Nablus, mi chiede qualche cosa. Poco ma sicuro che mi ha scambiato per palestinese: non è la prima volta! Ritorniamo nel pullmann, qualcuno va a prendersi un gelato. Io non capisco che quello sarebbe il pranzo e cos? lo salto (me ne accorger? qualche ora dopo).
Prendiamo la strada del ritorno che, per motivi di oscuri permessi (credo che creerebbe problemi ai check point), è diversa dall'andata. Per la maggior parte del tempo chiacchiero con alcune ragazzine, principalmente 'Ala, che scopro essere sorella di Yara (la quale lavora al CCRR). Fa caldo, il viaggio è lungo. Passiamo un paio di checkpoints, e al secondo l'attesa sembra non finire mai. Tanto che mi addormento per un bel pezzo. E al mio risveglio siamo ancora l?. Sigh... Fortunatamente va tutto pe.r il meglio. Molte ore dopo, quando siamo a pochi chilometri da Betlemme, ci aspetta l'ultimo checkpoint. Baker, seduto accanto a me, dice che stavolta il dovrebbe essere veloce perché sanno che ne abbiamo già passati vari. Invece, sorpresa: due giovani soldati israeliani vogliono entrare e vedere. Salgono con il mitra, un po' spacconi. Il primo, biondidno, sui vent'anni, ha la faccia incazzosa di quello che vuole trovare un problema a tutti i costi. Il secondo, visibilmente un po' agitato, cerca di mantenere l'espressione di chi ha tutto sotto controllo. Hanno anche l'aria molto stanca e annoiata. Iniziano ad andare avanti e indietro, controllano a caso vari documenti. Tengo in vista il passaporto. Il biondino fa finta di non vederlo e passa oltre. Ritorna indietro, ricontrolla le file. Prende il passaporto di Alex e inzia a farle alcune domande secche. Poi indica tre ragazze, tra cui le animatrici Lydia e Wafa, le fa alzare e alzando la voce le fa scendere. Lydia e la ragazzina tornano su. Wafa, rimasta a terra, inizia a preoccuparsi ma si comporta molto spontaneamente quando i soldati ritornano da lei. Le chiedono qualche cosa, risponde, ma la portano via nel prefabbricato che funge da ufficio. L'attesa è lunghissima. Iniziano a circolare voci: "ha detto che ha dimenticato i documenti", dice qualcuno "s?, di solito ti arrestano per tre giorni", commenta un altro. "S? s?, l'hanno arrestata". Tutti gli sguardi sono rivolti alla porta dell'ufficio. Il tempo non passa più. Scende anche Amer, parla con un soldato che gesticola nervoso. Altri soldati arrivano, sono quattro in tutto. Un fuoristrada mimetizzato inzia a fare manovra, Appare la chioma di Wafa ma resta ancora accerchiata dai soldati. Finché inizia a camminare verso la corriera. Sale, tira un sospiro di sollievo ma ha ancora il viso teso. Almeno è finita, meno male... Eh no, un momento: i soldati continuano a parlare con Amer, gesticolano, vogliono qualche cosa. Ritornano: vogliono la ragazzina che era scesa prima assieme a Lydia. Scende, visibilmente agitata. Va verso l'ufficio e si rifugia accanto a Amer che si sbraccia mentre quattro soldati parlano, gesticolano, controllano accerchiandoli. Dopo vari minuti, entrambi ritornano. Stavolta è finita sul serio. Si torna a casa.
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Final event
E il summer camp è giunto alla fine. Ci si troverà alle 14 alla scuola per preparare le ultime cose. Mi sveglio tardi, decido di fare il bucato ma prima devo prelevare al bancomat. Qui vicino ci sono due banche ma una non ha il bancomat e l'altra, una banca islamica, non mi accetta la carta di credito. Boia cane, dovr? andare in cerca di una banca in centro a Betlemme. Cammino fra bancarelle e passanti, con il sole che mi arrostisce e le salite che mi fanno grondare di sudore, vagabondando senza meta. Non vedo insegne di banche. So che c'è una banca giordana vicino alla Basilica della Natività ma emette solo dinari giordani. L? vicino, per?, c'è anche un palazzo multifunzione con un ufficio di informazioni turistiche. Forse è il caso di andarci. Faccio bene, perché mi indicano dove porre fine con successo alle ricerche. Ora so che devo cercare le filiali della Arab Bank. Torno a casa passando per il supermercato, faccio il bucato e quando è l'ora esco. Ah, ho conosciuto anche la sorella di Abu Wahid, una signora molto gentile e cortese che mi ha pregato di rivolgermi a lei per qualsiasi cosa come se fosse mia madre. Assieme a lei c'era una donna anziana, forse la madre, dagli gli occhi azzurrissimi e un sorriso sincero stampato sul viso.
Alla scuola c'è un po' di fermento, i gruppi stanno ultimando i preparativi e noi animatori pure. Provo a fare un po' di pulizie sperando che durino. Verso metà pomeriggio arriva un gruppo di studenti universitari italiani, quasi tutti milanesi. Sono a Gerusalemme da fine giugno per studiare l'ebraico e hanno deciso di fare un salto nei Territori Occupati prima di tornare nello Stivale. A dire il vero, non hanno scelto un posto a caso: fra loro c'è anche Maddalena, che ho visto lo scorso aprile a Rimini al convegno nazionale della Rete Radié Resch. Mi ricordo di lei oltre che per i vivaci capelli rossi, perché stava sempre a chiacchierare con Ibrahim, anche lui presente. E infatti è venuta qui per salutarlo e per vedere come lavora questo famoso CCRR e conoscere questo celebre Noah Salameh. Amer mi incarica di accompagnarli, di illustrare loro il centro e di fare loro da "guida". Li porto a conoscere i gruppi,che per? sono tutti scatenatissimi e più incontenibili del solito. Le ragazze (molte sono educatrici o capi-scout o insegnanti) impazziscono, sono raggianti e si immaginano già alle prese con progetti di ogni tipo. Chiedono, sono tutti curiosi e, mentre distribuiscono lecca-lecca ai ragazzini, mi fanno molte domande. Sono stupiti di trovare una realtà diversa da quella che si aspettavano: a Gerusalemme li sconsigliavano di venire, li mettevano in guardia da pericoli e minacce. Nulla di più falso.
Purtroppo se ne vanno poco dopo l'inizio dello spettacolo, perché hanno varie cose ancora da fare negli ultimi giorni ()come studiare per l'esame finale) e il tempo è tiranno. Nel frattempo è arrivato anche Abu Wahid, al quale avevo dato l'invito del centro. Dice che se è qui è solo per me, perché l'ho invitato. Per? si lamenta del ritardo e della sporcizia. Purtroppo, infatti, la mia opera di pulizia totale dell'esterno è servita a poco: cartine di caramelle e sacchetti di patatine sono di nuovo dov'erano prima. Anche lui resta poco, perché deve andare in moschea a pregare. Dimostra poco entusiasmo e, quando tutti si alzano in piedi per l'inno nazionale, lui resta seduto. Mi stupisco: pensavo fosse molto nazionalista, è evidente che mi sbagliavo. Non finisce mai di stupirmi.
Lo spettacolo è un trionfo: sketch, danze, coreografie, persino bambini equilibristi. Tutti sono felici, genitori, fratelli e partecipanti. Ci sono anche le autorità e persino alcuni membri dello staff delle ong che hanno contribuito a finanziare il progetto del campo. Dopo la consegna dei diplomi di partecipazione (anche a me, per aver svolto il ruolo di animatore) faccio due chiacchiere con il tizio di War Child. E' in Palestina solo per cinque giorni, per fare un monitoraggio di alcuni progetti. Mi chiede com'è andata, come sono stati i ragazzi, com'erano le attività, cosa far? ora che è finito il campo. Capisce solo verso la fine che non sono palestinese e che lavorer? al CCRR nella valutazione qualitativa di un progetto finanziato da loro. Rimane un po' interdetto perché non capisce che cosa ci faccia un argentino, che vive in Italia, in Palestina...
Gli ultimi attimi, ormai all'imbrunire, sono quelli della fine di ogni campo estivo, grest, viaggio studio, camposcuola, ecc: foto ricordo, scherzi, firme e schizzi sulle magliette, bottigliate d'acqua, scambi di e-mails. La cosa strana è che in realtà, il summer camp non è affatto finito. L'ultima giornata (anche se è un fuori programma annunciato) è domani...
P.s.: oggi, camminando per Betlemme, mi sono reso conto che la presenza cristiana qui è forte. I palestinesi cristiani, infatti, sono molti e in alcune zone dell'intera Palestina storica (come a Nazareth, che pur essendo in Israele è rimasta una città araba) sono minoranze molto forti. Anche i titolari dell'internet point vicino alla moschea sono cristiani. E non mi sembra affatto che abbiano problemi: anche loro sono arabi palestinesi, di altra religione ma pur sempre appartenenti alla stessa cultura araba e palestinese.
P.p.s.: in questi giorni a livello politico è successo un po' di tutto: c'è stato un attentato a Gerusalemme ad opera di un arabo-israeliano a bordo di una ruspa; c'è stata la visita del primo ministro britannico al collega israeliano; c'è stato l'incontro del candidato alla Casa Bianca Barack Obama con I vertici israeliani e palestinesi. In teoria vicende degne di nota. Sarà anche perché non capisco l'arabo, ma sinceramente non mi è sembrato di vedere grande agitazione o interesse da parte della gente. Con gli animatori del Summer Camp, almeno, non se ne è fatta parola...
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Arabic
Ecco, il summer camp finisce ufficiosamente oggi, con una "sorpresa". L'appuntamento è per le 8.30 alla solita cuola ma quando arrivo c'è ancora poca gente. Per un'incomprensione Alex è qui già da mezz'ora. Il tempo passa, lento, lentissimo. Mentre aspettiamo, c'è chi gioca a calcio e chi va a caccia di persone con la maglietta del centro per metterci firme, dediche e quant'altro. La mia, ormai, sembra tutto fuorché una t-shirt. Finito lo spazio disponibile sulla stoffa, i ragazzini con i pennarelli infieriscono su braccia, mani, viso. Ibrahim e le sorelle arrivano con oltre un'ora di ritardo. Dopo quasi un'altra ora arriva il pullman. Meno male perchè ormai non sapevamo più che pesci pigliare. La sorpresa è presto svelata: piscina.
Arriviamo nella struttura, ben conservata, e iniziano subito I primi tuffi. Credo che in Italia (e vuol dire tanto, in un paese come il nostro dove le regole normalmente sono le eccezioni) quello che ho visto qui non si vedrebbe molto facilmente: bambini che correvano scalzi a bordo piscina, tuffi di ogni tipo principalmente spericolati, spinte di ogni genere e le immancabili cartacce in giro. C'era un bagnino (a volte) che guardava sconsolato e ogni tanto cercava di alzare la voce quando il vaso era colmo. Per fortuna non è successo nulla di nulla.
Inizialmente a nuotare c'erano solo i maschi, per un'ora abbondante. Solo Alex – che indossava uno strano costume che sembrava una specie di vestitino con tanto di gonnellina – aveva deciso di mettersi a mollo. Io ne ho approfittato per dormire. Dopo un po', invece, qualche ragazzina decide di andarsi a cambiare (le più grandi e tutte le animatrici sono rimaste fuori). Beh, dai costumi da bagno femminili si vede che questo è un paese arabo: ci sono s? i classici (ma pochi) due pezzi; più che altro si usano tanto dei costumi interi con questa specie di gonnellina che fa parte integrante. Le musulmane più osservanti (ma erano poche), invece, hanno costumi interi che coprono anche gambe e braccia.
Chi è a bordo piscina continua nell'attività di scribacchiare e disegnare sulla pelle delle schiene altrui: il disegno che va per la maggiore è quello di Handala. E qui, apro una piccola parentesi: Handala è una popolarissima vignetta di un noto esponente della resistenza palestinese, il disegnatore Naji Al Al?. Si tratta di un bambino scalzo, con i vestiti rattoppati e un testone con pochi capelli dritti, ritratto sempre di spalle e con le mani incrociate. Rivolge la schiena ai lettori per esprimere il suo dissenso, la sua delusione e perplessità per la situazione dei palestinesi. Praticamente è una specie di Charlie Brown che qui si vede ovunque: magliette, collanine, persino murales nelle scuole. Handala è diventato uno dei massimi simboli della resistenza, assieme alla Chiave che rappresenta la speranza del ritorno per i rifugiati: quasi tutti, infatti – prima di fuggire a causa della guerra seguita alla nascita di Israele – chiusero la porta delle loro case e si portarono via la chiave. Ancora oggi la conservano, cos? come quelle famiglie cui viene distrutta la casa per far spazio agli insediamenti.
Nel primo pomeriggio, inizia la caccia alle animatrici, foraggiata dall'arrivo di Amer: una dopo l'altra, di peso, vengono buttate vestite in piscina. Quando mi accorgo che manco solo io, scappo. Per? dopo poco Amer mi viene a prendere, con una specie di ultimatum: o mi butto da solo, o mi buttano loro. Mi arrendo. Splash.
Mentre mi asciugo al sole, Noor, una bambina di origini inglesi, mi supplica di rientrare in piscina. Con lei anche altri. Noor, per?, è particolarmente insistente, cos? mi rituffo. Alla fine penso di essere rimasto in acqua un'oretta abbondante, durante la quale ho pure insegnato a lei e ad una sua amica a nuotare o, quanto meno, a stare a galla. Beh, in effetti è stato proprio divertente!
Il pranzo è a base di hamburger e patatine ma, un po' sorpreso, vedo che appena finiscono di mangiare quasi tutti si ributtano tutti in acqua. Cerco di sconsigliarlo, si sa, la digestione... Alla fine, per?, arriva un gruppetto di bambine per una lezione di nuoto e quindi ce ne dobbiamo andare. Ridendo e scherzando sono quasi le 17! Risaliamo in autobus e iniziano i saluti, soprattutto per Alex che domani riparte per gli Stati Uniti. Un po' a malincuore e controvoglia.
Fra un paio d'ore, invece, avr? la mia prima lezione di arabo: il desiderio di Amer (e di tanti altri, a dire il vero) è che prima di tornare in Italia io riesca ad imparare qualche cosa. Per cui, di sua spontanea volontà, mi ha trovato un'insegnante che di solito lavora con stranieri. Si tratta di una donna in carrozzina, che abita nel campo profughi di Azeh, non lontano dal centro di Betlemme.
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Ecco, sono tornato dalla prima lezione. Il campo profughi di Azeh è piccolo, a ridosso del centro storico in direzione di Beit Sahour. Lo si riconosce perché, all'entrata, c'è un cartello azzurro dell'UNRWA (la squattrinata agenzia Onu per i rifugiati palestinesi). In realtà è praticamente una viuzza, che si distingue dal resto della città perchè i suoi edifici sono fatiscenti e costruiti un po' a casaccio. Amer mi ha detto di chiedere a chiunque di Ekhlass, ché tutti la conoscono. Ci provo, addirittura in arabo: "Wen beit Ekhlass?". Due bambine con una maglietta rossa, di qualche summer camp, mi guardano e ridacchiano. Per? non hanno capito cosa voglio. Nemmeno un paio di uomini fuori in strada, che mi fanno segno di chiedere più avanti. Mi fermo da alcuni ragazzi che trafficano nel motore di un'auto scassata. Uno di loro parla inglese e chiede ad un bambino di accompagnarmi. Shuqran. Arrivo, la porta è aperta. Dentro ci sono quattro donne in abiti tradizionali, tre col velo, intente nelle loro faccende. "Welcome, please" mi dice una. Entro, saluto, ringrazio. Mi sento un po' a disagio perché non so quale sia il comportamento da tenere con le donne musulmane osservanti; ad esempio non so se dare la mano oppure no e altre cose simili. Tuttavia, loro sono meno imbarazzate di me e mi portano dalla mia futura prossima insegnante. Sono un po' in anticipo, quindi faccio in tempo a conoscere una "collega", forse statunitense. Ekhlass è in una carrozzina, muove solo un braccio. Ha tra i trenta e i quarant'anni e parla molto bene l'inglese e la stanzina in cui mi fa accomodare è diventata una piccola classe, con fotocopie e cartelli con Titti disegnati a mano da qualche bambino. Non nascondo di essere visibilmente emozionato, soprattutto perché forse finalmente inizier? a capire qualche cosa. E perché non so cosa mi aspetterà. "L'arabo è molto difficile, inutile nasconderlo. Per? con la pratica quotidiana inizierà ad uscire. Tu, poi, hai la fortuna di vivere qui quindi le cose dovrebbero essere più facili".
Cominciamo a conoscerci prima. Lei dice di essere abituata ad interagire con gente di ogni tipo di cultura, soprattutto europei, e quindi si propone non solo come insegnante di lingua ma anche come "introduttrice" alla cultura e al mondo arabo e islamico in genere. La sua attività di insegnante per stranieri, cos? come tante altre (dipinge, realizza calendari, fa traduzioni, ecc), sono un modo per guadagnarsi da vivere e fare la "propria parte".
Il tipo di lezione che mi propone è senza libri di testo e per il momento solo orale. Ci? che più mi interessa è poter in qualche modo interagire nel quotidiano, quindi per oggi imparer? a salutare, a chiedere informazioni personali, ad andare al negozio e a contare fino a 10. Cercherà di insegnarmi prevalentemente l'arabo "classico", senza perdere d'occhio l'arabo parlato che spesso differisce (da Paese a Paese ma anche da villaggio a villaggio).
Non so perché, ma i miei rudimenti di portoghese per ora mi danno una mano a memorizzare alcune parole e pronunce. Pure i dialetti italiani (in particolare della Sicilia) diventano utili cos? come anche lo spagnolo ed il tedesco. Oh, speriamo bene...
Durante la lezione, la sorella di Ekhlass mi porta prima un bicchiere di té con menta appena fatto e poi un altro di succo di pompelmo. Wow, l'ospitalità araba mi incanta. La mia prima ora e ½ vola via in un baleno, di carne al fuoco ce n'è parecchia e quindi è il caso di fermarsi. Dato che il rapporto insegnante-studente in questo caso non è formale, approfitto per fare qualche domanda e scambiare due parole. Provo ad esercitare subito qualche insegnamento ricevuto anche se a fatica, ma con gioia. Mi avevano offerto del caffé ma, essendo quasi le 20.30, chiedo scusa e rifiuto perché senn? non dormo più: qualche anno fa mi sono dato la regola delle 17.00, orario oltre il quale moooolto raramente bevo caffé (non mi farebbe dormire la notte).
Me ne vado felice e, con il foglio degli appunti in mano, inizio il ripasso mentre cammino verso casa. L? mi aspetta Abu Wahid che mi ha detto di andare immediatamente da lui a fargli vedere cosa ho imparato perché deve vedere se vale la pena o no. Lo saluto nel nuovo modo che ho imparato, mi fa accomodare in salotto e inizia ad esaminare ci? che ho scritto. Gli premetto che ho scritto tutto in maniera da facilitarmi le pronunce, quindi probabilmente la traslitterazione in inglese non è questa. Abu Wahid si lamenta un po' del fatto che sia mescolato l'arabo classico con lo slang di Betlemme, ma concorda col fatto che anche quello è utile soprattutto per le faccende quotidiane. Passa in rassegna la traduzione in inglese delle parole arabe che ho imparato e qui mi lascia con la bocca aperta. Quando arriva a 'ahlen, wah as-sahlen mi dice che è troppo riduttivo tradurlo come "benvenuto", poiché il vero significato è qualcosa come "entra in questa che è la tua casa, la via è piatta", ovvero: la mia casa è la tua casa, non ci sono ostacoli per te. Commenta che l'arabo, essendo una lingua religiosa, è ricco di sfumature e di metafore che lo rendono poetico e angelico tanto che, per i musulmani, in Paradiso si parla arabo. "Fai bene ad impararlo adesso, cos? sarai già pronto per il Paradiso!", dice ridendo. L'arabo, secondo Abu Wahid, è la lingua che emoziona perché parla al cuore. La parola Allah (Dio), ad esempio, è un soffio delicato che esce dal petto, quindi stabilisce un rapporto profondo e inscindibile con l'essere umano. Che dire...
Si rallegra quando gli dico, senza leggere, alcune cose e concorda con la mia insegnante: per imparare bene devo andare a fare la spesa e parlare arabo coi commessi. O almeno provarci. La moglie di Abu Wahid commenta che, parlando spagnolo, dovrei essere capace di produrre alcuni suoni e mi fa provare. In effetti qualche cosa viene fuori, meglio cos?. Saluto in arabo, iniziando cos? a praticare fin da subito.
E quando esco, accompagnato dal mio saggio padrone di casa, gli chiedo come devo comportarmi con le donne islamiche. Mi dice di non preoccuparmi né di arrabbiarmi se non danno la mano, che se portano il velo è solo per protezione e rispetto (che anche i mariti devono avere, sottolinea) e non per escluderle o trattarle al rango dei cani. In effetti ho notato che di solito, se si incrociano, gli uomini cedono la strada alle donne facendosi da parte. Di solito sono i maschi a scansarsi, qui, non le donne. Non sempre sono accompagnate da uomini, ma se lo sono, questi ultimi portano le borse. Qui a Betlemme, almeno, mi è capitato di vedere che funziona cos?.
Ok, è ora di mettersi a studiare. Mah ar salameh (bye bye).
P.s.: sto facendo un sacco di foto, spero di poterle postare prima o poi
"Occupation 101" e narghilé
E' buio, suono il campanello e dalla finestra esce una bambina. Un po' imbarazzato dico solo "Noah Salameh?" e quella, ridendo, mi risponde in inglese chiamandomi per nome e invitandomi ad entrare. Non l'avevo riconosciuta: è Lana, una delle bambine del summer camp. Non sapevo fosse figlia di Noah. La seguo nel fresco giardino dietro casa, dove lui e la moglie si godono il fresco della sera sorseggiando té aromatizzato alla salvia e frutta fresca del loro orto. Chiacchieriamo sulle mie prime impressioni, sul vissuto quotidiano dei palestinesi. Lei mi racconta di quando è stata in Italia per la prima volta, ricorda che era impaziente di vedere il mare. "E' il nostro stesso mare (il Mediterraneo) ma sono dovuta andare in Italia per vederlo, perché qui non ci lasciano". I palestinesi della West Bank, infatti, non possono entrare nella Striscia di Gaza e viceversa.
Dei palestinesi mi stupisce questa loro voglia di vivere "normalmente", come se fossero veramente in pace. Israele cerca di esasperarli, di stremarli affinché se ne vadano (o muoiano tutti, come ha spesso detto qualche ministro dello stato ebraico). Loro, per?, ostinati e stanchi, ormai rispondono con la tranquillità dei gesti quotidiani. Sono esasperati sul serio ma sanno anche che non hanno altra scelta: all'occupazione, la maggioranza ha scelto di rispondere vivendo.
Dopo poco arriva Alex ma senza amiche. In compenso scopro che anche alcune delle animatrici del summer camp (Arwa, Roha e Yara) sono figlie di Noah. Seguiamo Ibrahim nel salotto che, a differenza del resto della casa, è molto più arabeggiante: nella grande stanza con i muri spogli c'è solo un grande tappeto che copre tutto il pavimento e, lungo tutto il perimetro, dei cuscini squadrati a forma di poltroncine. Ci togliamo le scarpe e prendiamo posto. "Io non vengo – esclama Noah sorridendo – questo è un film per giovani. Queste cose purtroppo le ho già viste e vissute in prima persona".
Il film che stiamo per vedere si chiama "Occupation 101" e credo sia una produzione statunitense. Si tratta di un toccante documentario sull'occupazione israeliana della Palestina, di come storicamente si è arrivati a questa situazione e di cosa significa concretamente per i palestinesi. L'introduzione fa un parallelo storico con vicende simili: Irlanda del Nord, Stati Uniti, Algeria, India, Sudafrica. Repressione, violenza, terrore, carcere. Gandhi, Mandela, Luther King. Palestina.
A parlare non sono palestinesi (esclusa qualche testimonianza) ma principalmente giornalisti, avvocati e religiosi statunitensi e israeliani. Fra gli altri: Noam Chomsky (genio statunitense, intellettuale), Ilan Pappe (storico israeliano), Amira Hass (giornalista di Haaretz). Sono tutti ebrei. Ci sono anche altri statunitensi e israeliani, alcuni cristiani, altri sono funzionari o ex ambasciatori, pure dei rabbini. Non solo sono contro l'occupazione, non solo condannano le atrocità commesse da Israele contro il popolo palestinese. Indicano anche i colpevoli: l'amministrazione USA (che da ogni anno a Israele un totale di finanziamneti superiore a quelli che elargisce a tutti gli altri stati del mondo messi insieme: più di 10.000 dollari per cittadino in Israele contro gli appena 59 per il resto del mondo). E le le lobbies ebraica (AIPAC) e le associazioni fondamentaliste cristiane statunitensi. Per inciso: spero che, citando la sigla esatta, non mi si accusi di "antisemitismo" per aver osato parlare della lobby ebraica. Con "lobby ebraica", infatti, non intendo dire "gli ebrei" ma proprio quella specifica associazione (e le sue consorelle).
Le immagini sullo schermo sono spaventose: gli insediamenti, le violenze contro donne e bambini, la demolizione di case e la distruzione dei campi, aerei e carri armati contro fionde e fucili. Soldati israeliani che cercano di rompere le braccia con feroci colpi di pietra ad un prigioniero inerme. Si mettono a confrono la vita nei campi profughi di Gaza e quella nei ricchi insediamenti dei coloni. Israele non si pu? considerare una democrazia. Tecnicamente non lo è: solo gli ebrei, infatti, godono pienamente della loro cittadinanza. Agli israeliani di origine palestinese non sono garantiti gli stessi diritti, sono considerati cittadini diversi. Un esempio lampante è il fatto che molti diritti di cittadinanza dipendono dal compimento del servizio di leva obbligatorio. Dal quale, per?, sono esclusi i palestinesi. E molti lavori (soprattutto nel settore pubblico) sono solo per chi ha serivito nell'esercito. Uno stato basato sull'appartenenza religiosa non pu? essere considerato una democrazia, nonostante usi mezzi democratici per i propri cittadini come le elezioni. Anche qui, ad esempio, agli arabo-israeliani è vietata la possibilità di formare partiti politici. Democrazia è partecipazione, diceva Gaber. Non esclusione.
Fra le testimonianze che mi incuriosiscono principalmente c'è quella di un ebreo ortodosso di Gerusalemme che, durante una manifestazione contro l'occupazione dice: "Mia nonna mi raccontava che prima della formazione dello stato di Israele noi e gli arabi eravamo fratelli: vivevamo insieme, andavamo negli stessi posti, le nostre famiglie si prendevano cura dei figli delle altre. Non è l'ebraismo che ha creato il problema che c'è ora, non è il giudaismo, non sono gli ebrei, non sono gli arabi: il problema è stato il Sionismo". Un militante ebrea per i diritti umani, invece, racconta dell'accoglienza che trova ogni volta che si reca presso famiglie palestinesi. "Sono dolci, molto gentili e affettuosi".
E anche sulla questione degli insediamenti bisogna puntualizzare un po': non è detto che tutti i coloni siano dei pazzi estremisti. Certo, ce ne sono parecchi che sono veramente convinti della natura "divina" della loro missione, ovvero riconquistare tutta la Palestina (ovvero la "Terra Promessa", che è anche più ampia) e riformare il regno di Israele. Tanti altri, per?, decidono di andare a vivere negli insediamenti soltanto perché il governo dà loro molte agevolazioni fiscali e grossi incentivi economici. Per questi ultimi, quindi, non si tratta di un fatto politico ma meramente economico. D'altronde è difficile dar loro torto: se il governo ti paga tutto e tu non hai un centesimo, ci sputeresti sopra? Sono sicuro che fra gli abitanti degli insediamenti ci siano anche parecchi argentini ebrei: 4 anni fa, mentre ero a Buenos Aires, usc? un film intitolato "El abrazo partido" (l'abbraccio diviso), ovvero la storia di un giovane argentino ebreo non praticante che, dopo la crisi del 2001, decide di andare a tentare la fortuna in Israele. Per lui non era una questione di fede o di politica: voleva solo approfittare di un'opportunità per sfuggire dalla miseria. La stessa cosa che fecero le migliaia di ebrei che scappavano dall'Europa nazi-fascista durante la Seconda Guerra mondiale. Peccato solo che le naturali necessità di quelle persone in fuga siano state il pretesto politco per rubare la terra ad un popolo che non avrebbe di sicuro avuto nulla in contrario ad aprire le proprie case. Arabi ed ebrei, in fondo, hanno vissuto insieme per secoli senza alcun problema. Anche in Palestina. Probabilmente sarebbe più facile per gli israeliani vivere con i palestinesi che non fra di loro. La società israeliana, infatti, è una delle più frammentate al mondo: incomprensioni e rivalità fra ashkenaziti e sefarditi; scontri politici e sociali fra laici, ortodossi e ultraortodossi (alcuni di questi, paradossalmente, non riconoscono lo Stato di Israele è di natura umana e non divina); grande stratificazione sociale e pure razziale (gli ebrei di origine araba e africana sono l'ultimo gradino della piramide sociale)...
Ovviamente nel film si parla anche dei suicidi di militanti palestinesi di alcune fazioni politico-militari, le cui vittime sono quasi sempre civili. "E' spaventoso – racconta Amira Hass – ci? che si vede. E' terribile vedere le immagini dei morti e dei feriti". Dice la giornalista di Haaretz che bisogna condannare quegli episodi. Ma sarebbe un errore, prosegue, non collocarli nel contesto più ampio dell'occupazione israeliana e delle violenze e privazioni cui sono sottoposti i palestinesi. Non voglio difendere gli attentatori suicidi: ho sempre sostenuto che se proprio bisogna fare la guerra che siano i soldati a spararsi fra loro, e soprattutto i loro capi. Per?, facendo un paragone delle armi a disposizione, le forze sono dispari: centinaia di carri armati, elicotteri da combattimento, aerei da caccia e armi sofisticate contro kalashnikov, molotov, candelotti di dinamite, qualche scassato razzo qassam e sassi. Lungi da me giustificare gli attacchi ai civili: il diritto internazionale parla chiaro in proposito (e cioè: la sfera civile -popolazione, infrastrutture ed edifici- deve essere lasciata FUORI dalle azioni belliche). Ma come giustamente condannano gli attacchi che provocano vittime fra i civili israeliani, i paesi occidentali dovrebbero essere meno ipocriti e condannare altrettanto fermamente anche ogni azione militare e politica israeliana, perchè ogni volta che Israele si muove è solo per colpire la popolazione civile palestinese. (E libanese, come due anni fa).
L'ultima parte del film è dedicata alla situazione disperata della Striscia di Gaza. Da quando Sharon decise lo smantellamento di tutti gli insediamenti (una magistrale opera di propaganda), Gaza è diventata un vero e proprio inferno, dove il Cerbero israeliano ha potere di vita e di morte, ne controlla in maniera ferrea i confini, cos? come lo spazio aereo e persino la costa. Lo smantellamento fu veramente solo un atto propagandistico, passato in mondovisione come un serio tentativo per cercare la pace. Le struggenti immagini dei coloni ultraortodossi che si dimenano per sfuggire agli sgomberi dei soldati, in realtà nascondevano I piani già decisi della costruzione del Muro e di ulteriori nuovi insediamenti illegali nella West Bank e soprattutto a Gerusalemme est.
Dell'accanimento contro Gaza e i suoi abitanti è stata vittima anche una giovane ragazza statunitense, Rachel Corrie, di soli 23 anni. Per fermare la demolizione di una casa palestinese, Rachel si piazz? davanti alla porta cercando di fermare una ruspa israeliana. Che, per tutta risposta, non accenn? nemmeno a fermarsi e la travolse uccidendola. Mi ricordo di quel fatto, successo non molti anni fa. Purtroppo, per?, la cosa più choccante non è stata la morte terribile di Rachel ma il rifiuto del suo governo (quello degli USA) di condurre un'inchiesta sull'avvenimento. Tanto è lo strapotere della lobby ebraica? Sembra proprio di s?.
Inutile dire che l'angoscia è enorme. Nonostante la conclusione lasci spazio a qualche speranza. Alex è quasi senza fiato, io senza parole. "E' terribile – dice – e come cittadina degli Stati Uniti mi sento cos? colpevole". Già. Per? Alex è qui per lavorare con i palestinesi e gli autori di "Occupation 101" sono statunitensi. Ulteriore dimostrazione (anche per me, che a volte da quell'orecchio non ci sento) che i colpevoli non sono i popoli, semmai i loro governanti.
E' un po' surreale sentire qualche risatina e soprattutto l'invito di Ibrahim ad andare fuori a divertirsi un po', magari andando a bere una birra (s?, c'è la birra in Palestina e per di più buona e soprattutto prodotta localmente!) o facendo una tirata di narghilé. Pensandoci bene, per?, ha ragione lui: contorcersi il cervello e lo stomaco con i sensi di colpa e impotenza porta a ben pochi risultati. Se poi uno queste cose le vive ogni giorno, meglio cercare di sgomberare la mente: condizione essenziale per cercare quella tranquillità e quella normalità che l'occupazione cerca di portarti via.
In macchina usciamo da Bethlehem passando per polverose strade di campagna che si inerpicano tra le colline ricoperte di sassi e ulivi. "Mettete la cintura, fra poco c'è la polizia israeliana" ammonisce Ibrahim. Poco più avanti, infatti, c'è una specie di "zona di frontiera" che altro non è senn? una di quelle tantissime aree della West Bank sotto diretto controllo israeliano. Il motivo? Beh, di solito perchè c'è qualche insediamento di coloni ebrei. In questo caso perchè passa una delle tante strade ultrailluminate che collegano gli insediamenti. Il filo spinato e le varie barriere tutto intorno ci ricordano che ai palestinese sono interdette: uso esclusivo di coloni e militari. Anche questa è l'occupazione.
P.s.: alcuni film e documentari -molti si trovano in internet, altri cercando nelle videoteche- sul conflitto israelo-palestinese sono, oltre ad Occupation 101: Jenin Jenin (documentario sull'attacco subito dalla città pochi anni fa, in seguito al quale è quasi stata rasa al suolo); Paradise Now (film sulla storia di un aspirante suicida palestinese; vincitore di numerosi premi nei festival del cinema all'estero); Private (film italiano, di Saverio Costanzo, che racconta l'incredibile vicenda di una famiglia di palestinesi che deve sopportare l'occupazione del secondo piano della propria casa da parte di una pattuglia di militari israeliani). Buona visione
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Ospitalità
Oggi di nuovo al Summer Camp. Mi ero messo d'accordo con un ragazzino che abita qui vicino, Baker, per andare al centro insieme, in taxi. Mi aspettava alle 10, io avevo un paio di minuti di ritardo. Scendendo le scale trovo Abu Wahid che, con I suoi grandi sorrisi e i modi di galantuomo, mi saluta con frasi miste di arabo e inglese. "5 parole al giorno devi imparare. Io ti insegner?". Da ieri ci si sono messi pure i bambini in particolare Hamsa, che mi parla solo in arabo. Inizialmente perplesso, l'ho poi presa come una provocazione che mi ha fatto momentaneamente sbottare: "Ti ho detto che non parlo arabo!". Poi, per?, ho capito che era meglio buttarla sul ridere, e cos? ho fatto conquistandolo (almeno credo). Gli altri ci provano in tutti i modi ad insegnarmi ma i suoni dell'arabo sono talmente difficili che faccio fatica a pronunciarli, altrettanta fatica ad immaginarmi come scriverli e quindi è ulteriormente difficile immagazzinarli nel cervello. Almeno so salutare, ringraziare e chiedere pane, acqua e dov'è la casa di qualcuno. Sempre meglio di niente.
Di Baker non c'è traccia. Pazienza, vado a piedi. Per?, visto che non mi ricordo come arrivare, forse meglio chiamare Ibrahim. Non risponde. Amen, ci penserà la divina provvidenza. Spero, perché non so neanche come si chiami il posto. E anche se lo sapessi e volessi prendere un taxi, ho lasciato i soldi a casa. Cammino e cammino, fa caldo a Bethlehem. Mancano solo 5 minuti, chissà dov'è il posto. Eccola la divina provvidenza: vedo delle braccia agitarsi in un taxi. Sono Wafa e Alex. "Ma cosa fai a piedi con questo sole?". Eh, cosa faccio, cammino e vado al centro. "S?, ma siamo in ritardo e manca un sacco, dai sali". Corro! In effetti, a occhio e croce, sarei arrivato dopo un'ora...
Giornata un po' di svacco i ragazzini sono quasi tutti in straritardo e per di più non è ben chiaro cosa bisogna fare. So solo che dovremo continuare con i preparativi per il "final event" del 23 sera, che sarà pubblico. Il nostro gruppetto dei "grandi", ad un certo punto, viene chiamato a realizzare dei disegni. La consegna non mi è ben chiara e, nonostante un paio di delucidazioni, continua a restarmi oscuro lo scopo. Cos? resto l? a guardare I ragazzi scarabocchiare finché Wafa mi chiede se so disegnare e se ne ho voglia. Ok, ma che cosa? Qualsiasi? Ah, vabbé, mo' ce provo. Rimugino e rimugino finché decido di darci direttamente di tempera alla "macchiaiola" (emulando gli avi della mia Silvietta) e dipingo il laghetto con le ninfee di Breda di Piave, che la cagnetta Liri reputa il suo piccolo Luna Park privato. Esecuzione semplice e molto grezza che per? piace. Devo farne altri? Ok. Stavolta vado sui miei astratti con la penna biro, iniziati alle superiori durante una lezione noiosissima. Si tratta di linee, forme geometriche, sfumature, bollicine e riflessi monocromatici. Incasinati e senza logica ma con una certa armonia. "Fanaa", mi sento apostrofare. Significa "artista". "Nooo, macché artista! Sono solo linee" ripeto. Altri altri, quanti riesci a farne? Fanne ancora. Ancora? La mano mi trema! E vabbé, ci provo... Maledetta quella volta che ho deciso di fare i disegni astratti con la biro...
I bambini, intanto, disegnano, dipingono, pastrocchiano di tutto. Immancabili le bandiere palestinesi come anche i classici disegni del sole dietro le montagne. Alcuni sono molto belli e colorati. Per?, con questo sole, stare in classe a disegnare è uno spreco. Infatti nel pomeriggio siamo rimasti soltanto noi animatori ad eseguire freneticamente ogni sorta di schizzo per il "final event".
Alle 5 del pomeriggio, stufo marcio, mi incammino con Baker sulla via di casa. Ha 14 anni ma parla un buon inglese (a tratti meglio del mio, vergogna!) e ha una buona percezione del mondo. Mi racconta un sacco di cose su Bethlehem, su come vede il conflitto. Passo dopo passo, ulivo dopo ulivo, siamo arrivati. Mi invita a casa sua, dove ci sono la madre e la sorellina appena nata. La madre è a dir poco entusiasta, mi accoglie come se non mi vedesse da una vita. Mi chiede se voglio mangiare, mi offre del riso e un po' di kebab. Veramente ho solo sete, vorrei solo un bicchiere d'acqua. Pronti. Parliamo e parliamo, chiede cosa faccio, da dove vengo, ecc. Poi le chiedo di loro. Il marito, prima di sposarsi, è stato tre anni in carcere. La sorella vive a Gerusalemme ma, a causa del Muro e dei nuovi checkpoint e insediamenti, riesce a vederla molto ma molto di rado. Racconta con un po' di tristezza del futuro limitato per I ragazzi, senza prospettive né lavoro. E della sofferenza di molte famiglie (a Gaza, in particolare) che patiscono fame e miseria. Nei partiti politici ci crede poco, delle chiacchiere non si fida. Hamas? Che senso ha? Fatah? Finché non vede mantenere le promesse non ci crede. Abu Mazen? Sembra che ci provi a fare qualche cosa, ma finora sono solo parole. "Cosa possiamo fare? Ci resta solo la speranza, ormai viviamo di speranza".
Loro per? stanno bene, "per fortuna" dice. Sono riusciti a mettere via qualche soldino e ora possono permettersi di investire. Un po' andranno per l'università di Baker, un po' in una piccola palestra che aprirà fra poco. "Quando è pronta ti diciamo, cos? vieni a farti i muscoli!". Poi mi arrivano due inviti: uno a pranzo o a cena, quando voglio (ma devo promettere che ci andr? sul serio, non "s? va bene" e poi non mi faccio vivo), perché ormai sono di casa. E l'altro per il mese prossimo: loro hanno una tessera che li qualifica come artigiani e c'è un grosso festival multiculturale a Gerusalemme al quale partecipano ogni anno. Hanno una bancarella in cui, indossando gli abiti tradizionali, vendono pane arabo casereccio con olio d'oliva e lebaneh (una specie di formaggio fresco spalmabile). Andrei con loro come "aiutante", cos? al checkpoint non avrei problemi (e non pagherei l'entrata). E poi, una volta l?, potrei girare liberamente ovunque, incontrare gente di tutti I paesi e godermi Gerusalemme in un giorno di vera pace. Beh, ovviamente accetto con enorme entusiasmo entrambi gli inviti! Shuqran (grazie)!
Mi piace sempre di più questa Palestina...
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Welcome to Palestine (checkpoint permettendo...)
L'altro ieri era il grande giorno dell'ultima gita, con tanto di pernottamento. Meta dell'escursione: Nablus. Ok, Nablus. Cosa ci sarà mai di interessante a Nablus? Prendiamo la guida del Touring Club e diamo un'occhiata. Nablu, Nablus, Nablus... Ah, ecco. L'introduzione su Nablus. "Sulla pianura domina il monte Garizim, ritenuto dai samaritani il vero luogo del sacrificio di Isacco. La biblica Shekhem (antico nome di Nablus, n.d.r.) è il luogo del pozzo di Giacobbe, dove Gesù incontr? la Samaritana." ... Ah...
A quanto pare è stata fondata circa 4000 anni fa (quattromila!), per un periodo vi era custodita l'Arca dell'Alleanza (!) e vi sarebbero seppellite le spoglie di Giuseppe (quello venduto dai fratelli al faraone...). Ah, per finire il famoso Buon Samaritano era dei dintorni. Pu? bastare? Cos'è rimasto di tutto ci?? Due porte di accesso alla città risalenti al periodo degli hyksos (un antico popolo di origini egiziane che ha "civilizzato" tutta la Palestina, attorno al XVIII secolo a. C.) resti delle mura ciclopiche (1650 a.C.), le fondamenta di un tempio che corrisponderebbe a quello di Baal (citato nella Bibbia, del VII sec. a.C.), le rovine del tempio romano di Zeus (136 d.C.) e, poco distante, i resti di quello che dovrebbe essere il pozzo dove Gesù incontr? la Samaritana e vicino al quale sarebbe seppellito Giuseppe. Insomma, roba da far tremare i polsi anche al più ateo sulla Terra!
Sempre sulla guida leggo a sprazzi qua e là notizie su questa piuttosto che su quella località. Beh, intanto ho scoperto che il nome "Palestina" deriva dai Filistei (s?, quelli di "muoia Sansone con tutti i filistei!") popolo indoeuropeo che aveva fondato varie città sul mare nei dintorni di Gaza. Proprio a Gaza, tra l'altro, si sarebbe svola l'epico scontro tra Davide (ebreo) e Golia (filisteo). Che continua anche oggi ma a parti rovesciate.
Fa un caldo impressionante. Mi sveglio con calma e mi preparo e, prima di partire, saluto Abu Wahid che mi insegna un altro paio di parole in arabo. Nel frattempo arriva Baker e quindi si parte. Arriviamo al centro dove c'è già il pullman che ci aspetta ma manca ancora gente. Tanti ritardatari, come al solito (meno male, cos? mi sento un po' meno colpevole!).
Mezz'oretta dopo si parte ma ci fermiamo subito per una tappa al CCRR, al panificio (per delle brioches) e in un take-away dove Amer e Ibrahim comprano pane e falafel (polpettine di ceci) per tutti. Il viaggio sarà lungo e particolare. Appena usciti da Bethlehem ci imbattiamo in un enorme e bruttissimo insediamento di coloni che domina una collina (ormai tutta di loro proprietà, a giudicare dall'abbondanza di filospinato). Il paesaggio diventa più brullo e arido; a volte le colline sono coperte da arbusti e sassi, accompagnati da uliveti e alberi di eucalipto, fichi e fichi d'india. A volte non c'è proprio nulla e altre, invece, si vedono solo quelli che erano i tronchi di alcuni alberi (gli israeliani si accaniscono anche contro gli ulivi e gli altri alberi palestinesi). Spesso incontriamo dei pastori, con piccoli greggi di pecore e capre, e qualche asino. Ogni tanto, invece, appare qualche tenda di beduini e, completamente isolati da tutto, dei tuguri fatti di lamiere, assi e rottami vari, circondati da qualche asino e capre.
La strada serpeggia in quello che inizia a diventare un vero e proprio deserto. Il cielo di un colore azzurro intenso e senza nuvole, le colline brulle e polverose e i rari e tenaci arbusti mi portano con la mente alla mia Patagonia natia. Questi paesaggi sono cos? simili, cos? stranamente somiglianti. La Patagonia, per?, è più ventosa e più rossa. C'è un altro particolare che accomuna queste due terre: il filo spinato. Qui in Palestina il filo spinato taglia via grandi fette di terra per darle in pasto ai coloni ebrei. L? in Patagonia, il filospinato delimita le immense proprietà dei latifondisti. Oltre il filospinato non si va. Palestinese, argentino, mapuche: che tu sia nato in quella terra non importa più, ormai non ti appartiene. Te l'hanno portata via? Non hai più alcun diritto di reclamarla, se provi solo a pensarci sei già passato dalla parte del torto. Palestinese, argentino, mapuche: di terra ce n'era per tutti, ma non immaginavi che non ce ne sarebbe più stata per te. Straniero in casa tua, che ormai tua non è più.
La mia fantasia viaggia, il pullman non mi porta più a Nablus: queste sono le colline che da R?o Mayo portano al lago Colhue-Huapi di Sarmiento. Immagino un condor che ci taglia la strada e un ?and? che fugge spaventato dal rombo del motore diesel. E quando sono quasi sicuro di trovare un guanaco, mi accorgo che in realtà si tratta di ... un dromedario! Beh, un po' somiglia al guanaco (sono entrambi camelidi) ma questo è più bruttino e ha un gobbone sulla schiena. Ne vediamo vari, mentre i cartelli stradali in ebraico-arabo-inglese ci avvertono che siamo in prossimità del Mar Morto.
Intanto, a bordo i ragazzini chiacchierano, ridono e battono le mani ascoltando ininterrottamente la stessa cassetta di musica araba. Alcuni battono le mani a ritmo e altri ballano. La danza è un must per i palestinesi: si muovono al ritmo di qualsiasi cosa. Alzano le braccia, scuotono le mani, agitano fianchi e spalle, sbattono i piedi. Ballare è parte integrante della lingua, tanto che persino i bambini (nessuno escluso) ballano come gli adulti.
Questa zona della West Bank è praticamente di uso e consumo degli israeliani: le bandiere con la stella di Davide reclamano il possesso della strada, degli insediamenti, dei distributori di benzina, della colline e di tutto ci? che c'è fino al vicino confine con la Giordania. Passiamo chilometri e chilometri di lussureggianti campi e piantagioni recintati e custoditi da soldati. Alberi, palme da dattero, serre, ulivi, frutteti... I cartelli sono solo in ebraico, le bandiere solo quelle di Israele. La terra palestinese. A volte siamo in una specie di "zona di confine" che fa risaltare il contrasto stridente che c'è. Da un lato ricchezza, acqua, cancelli, filospinato e tanto verde. Dall'altro colline aride, sassi, alberi tagliati, rifiuti.
Il viaggio è lungo, passiamo attraverso vari villaggi palestinesi (alcuni miseri, con varie zone fatte solo di baracche di lamiera), con le baracche dei venditori di frutta e verdura che arrostiscono al sole.
Arriviamo al primo checkpoint. Nervosamente tiro fuori il mio passaporto. Nel dubbio ho anche le letter dell'università. Si aprono le porte, sale un giovanissimo soldato israeliano impolverato, con il mitra a tracolla . Ha un po' di barba e un'espressione stranamente dolce. Confabula con Amer, guarda con una specie di mezzo sorriso innocente I bambini e dicendo che è tutto ok saluta e ci fa passare. Si chiudono le porte. Tre, due, uno. Urlo di gioia!
Passano varie ore di saliscendi, di deserto, di capre e cammelli. Alex si raggomitola in una poltroncina. "Non voglio vedere – dice – questa è la materializzazione della mia visione dell'inferno!". Pochi chilometri ci separano dalla meta, per? prima c'è l'ennesimo checkpoint. Stavolta non sale nessuno. Ci fanno passare. Le auto palestinese che arrivano in direzione opposta guardano con curiosità il pullman pieno di bambini. Cosa saranno venuti a vedere in mezzo a questi villaggi sperduti, si domanderanno. Ci siamo. Scendiamo un attimo per qualche acquisto e si riparte. I bambini hanno comprato vagonate di schifezze ultradolci o salate: patatine (pringles), merendine, snacks (snickers), bibite gassate (coca-cola) e bevande energetiche tipo red-bull... Come a suggellare la loro somiglianza con i coetanei occidentali, nel pullman impazziscono quando l'autista mette su "Barbie girl" degli Aqua (sigh) o altra musicaccia commerciale da discotecari truzzi.
Come anticipatomi da Amer e Ibrahim questa mattina, andremo ad alloggiare in un centro per la gioventù che fino a non molto tempo fa era un carcere politico. In effetti, sto casermone ha tutta l'aria di essere un carcere, anche se ritoccato e trasformato. E' pomeriggio inoltrato, fa caldo e voglio solo dormire e rinfrescarmi un po'. Facciamo conoscenza del posto, che visto da vicino fa un po' meno paura. Bandiere palestinesi, ritratti di "martiri" sui muri esterni e poster di Arafat e Abu Mazen su tutti i muri caratterizzano questo posto, rimodernato con i fondi di Usaid.
Il resto del pomeriggio lo passiamo a giocare e a preparare il final event divisi in gruppetti. Amer mi invita a seguire Wafa e alcune ragazzine nelle stanze delle bambine. Da quanto ho capito devono provare una coreografia. Nell'angusto spazio tra i letti e l'entrata provano ma hanno bisogno di ulteriori chiarimenti perché alcuni passi non riescono. Finché Wafa decide di intervenire in prima persona che dando loro la carica e l'esempio dei movimenti. La musica è molto particolare perché molto diversa dalle classiche canzoni arabe. Ovviamente non capisco il testo ma i gesti della danza non lasciano spazio a dubbi: gesti di lacrime, di passi militari, braccia aperte verso la terra, mani che sventolano bandiere immaginarie o impugnano saldamente spade, pugni alzati al cielo, sguardi decisi. Wafa mi chiede cosa ho capito della canzone pe pr poi tradurmi il testo di quella che è la più popolare canzone della Resistenza palestinese. Le parole, le immagini, le emozioni e il messaggio di libertà trasmessi da questa canzone sono come quelli di un'altro celeberrimo canto di Resistenza: Bella Ciao. Facendo due chiacchiere mi dice che è palestinese di origini giordane, che la sua è una di quelle famiglie che hanno sofferto parecchio per l'occupazione e tutt'ora sono molto limitati soprattutto nei movimenti (le autorità israeliane, ad esempio, hanno vietato loro di avere la carta d'identità palestinese). Le si illumina il volto quando le racconto che abito vicino a Venezia ("Il mercante di Venezia" è l'opera di Shakespeare che preferisce) e dice che il suo sogno è quello di visitarla un giorno. Anche per per bere i famosi vini italiani: la ragazza adora la bevanda di Bacco ma non disprezza nemmeno quella di Gambrinus, a quanto pare!
Dopo un po' arriva il momento della cena. I cuochi hanno preparato un piatto a base di riso condito con carne macinata, verdure e arachidi tostate con contorno di pollo. Delizioso. La cosa che un po' mi ha lasciato interdetto è che i ragazzi mangiano velocissimi (la cena non dura più di 10 minuti) e soprattutto sprecano e buttano via un sacco di cibo. Questo, onestamente, non me lo sarei aspettato. Sarà perchè a Bethlehem tutto sommato non si sta male. Per? ugualmente non mi sembra un bel comportamento.
Beh, visto che finora ho quasi sempre tessuto le lodi dei palestinesi, approfitto per parlare un po' delle cose che mi sono sembrate negative. In primis ci metto la sporcizia: le strade e le campagne palestinesi sono veramente sporche. La gente ha la pessima abitudine di buttare i rifiuti (di qualsiasi tipo) ovunque. Tanto che alcune zone sono delle vere e proprie discariche e in alcuni angoli delle strade bisogna persino trattenere il fiato. Anche le strade del centro sono sporche e puzzolenti. Putroppo c'è anche da dire che mancano i cestini e i bidoni della spazzatura sono pochi; parlare di raccolta differenziata credo sarebbe semplicemente vano. Per non parlare, poi, dell'abuso di sacchetti di plastica (e di oggetti usa-e-getta): il concetto di riuso è praticamente inesistente. La cura meticolosa delle case private, poi, stride profondamente con la mancanza di rispetto per i beni pubblici. Basti vedere i telefoni: quasi nessuno funziona (ammesso che ci sia). Gli edifici pubblici credo soffrano tutti della mancanza di una necessaria e adeguata manutenzione: la scuola in cui si svolge il summer camp o anche questo centro di Nablus (entrambi restaurati di recente) sono molto trascurati, sporchi e spesso tante cose sono rotte e lasciate l? (banchi, sedie, porte, finestre...). Infine, noto spesso una mancanza di programmazione e il frequente abuso del ritardo (se in Italia è sempre mezz'ora dopo l'orario previsto, qui è addirittura un'ora dopo). Credo che la causa di questa trascuratezza sia da cercare sia nella mancanza di una forte entità pubblica (l'ANP esiste solo sulla carta) sia nella valanga di fondi che arrivano dalla cooperazione internazionale e che di sicuro continueranno ad arrivare. Probabilmente quello palestinese è uno di quei casi in cui la cooperazione, più che aiutare, rovina.
Ovviamente ci sono sempre i dovuti distinguo da fare: Abu Wahid, ad esempio, tiene smepre le carte delle caramelle in tasca e aspetta di tornare a casa per buttarle nel cestino. La puntualità, infine, è un suo pallino: farebbe un baffo anche ad uno svizzero. Abu Wahid è una persona carismatica, e mi incuriosice molto: è un musulmano molto osservante (si reca in moschea tutte le 5 volte giornaliere previste), ha una cultura molto elevata (è stato professore, ha studiato legge e parla un ottimo inglese) ed ha un cuore enorme. La sua profonda e intelligente religiosità lo porta ad essere molto gentile, onesto, fiero e aperto. Insomma: è la dimostrazione vivente che la religione, qualunque essa sia, se vissuta correttamente non pu? mai condurre a guerre e violenze.
Chiusa parentesi. Ritorno all'ex carcere di Nablus. Dove, scopriamo, il nostro Amer è stato prigioniero. L'edificio, infatti, è stato usato dall'esercito israeliano come prigione politica per i giovani militanti palestinesi. Dev'essere molto particolare per lui essere di nuovo qui ma da uomo libero. Chissà cosa sta provando in questo preciso momento... Tuttavia non fa trasparire nulla. Anzi: dirige bene la "prova generale" dello spettacolo del 23, che riesce molto bene per la gioia ed il divertimento di tutti. Per festeggiare, mette la musica a tutto volume scatenando le danze dei ragazzi. Che trascinano in pista anche Alex e me, un po' restii a muoverci. A volte mi sento un latinoamericano molto strano a causa della mia quasi "repulsione" per la danza. E' che proprio non mi so muovere. Ho l'elasticità di un tronco, pur avendo (almeno credo) il senso del ritmo. Peccato, ci ho pure provato ma ballare mi mette a disagio.
Con il calare della notte e della stanchezza, Amer approfitta per un momento di riflessione. In mezzo al cerchio, sul pavimento, accende tre candele attaccate per sopportare il soffio della brezza serale. Da questo punto fino alla fine non capisco più nulla perché si parla solo in arabo. Chiama uno ad uno i ragazzi a dire qualche cosa. Chiama anche me e, un po' imbarazzato, chiedo che cosa devo fare. Ibrahim mi dice di provare a dire che cosa mi viene in mente guardando le candele. Pensando al posto, al titolo del summer camp, a dove sono, al vento che cerca di spegnere le fiamme flebili, dico solo "Con questo vento, direi Resistenza". So di essere un po' "tarato" su certi temi, ma la suggestione è tale che penso solo alla valenza politica della mia presenza qui. Amer parla, a turno i ragazzi si esprimono, tenendo il capo chino e gli occhi chiusi. Qualcuno inizia a singhiozzare, i pianti si moltiplicano. L'unica cosa che mi viene da pensare è che stiano ricordando qualche loro caro, vittima dell'occupazione.
Quando tutto finisce, chiedo cosa sia successo e il motivo dei pianti. "E' solo che sono tristi perché il campo è finito". ?!? Ma... Mmm... Vabbé.
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Ci svegliamo mezzi rincoglioniti alle 8.30. Anzi, a dire il vero è il vocione di Amer che dice "Jorjo good morning" a farmi alzare. S?, Jorjo. Qua mi chiamano cos?. Pensavo che finalmente qualcuno mi avrebbe chiamato nel modo giusto, visto che gli arabi la "J" spagnola la sanno pronunciare. Stavolta, per?, il problema l'ha creato la "e" finale. Non so perché. So solo che per i palestinesi sono "Jorjo".
Il risveglio collettivo è lentissimo, roba da bradipi. La colazione è circa un'ora e mezza dopo. Colazione, tra l'altro, molto poco mediterranea e piuttosto "nordeuropea": pane arabo e mortadella (ma non di maiale!), lebaneh con olio d'oliva, cetriolini sott'aceto, uova sode con cardamomo macinato e caffellatte o té. Ripresomi dall'iniziale stupore, anche se un po' riluttante mi butto con cautela sul salume. Un po' alla volta ci prendo gusto e mi concedo il bis con l'uovo. Poi, per?, mi bevo un mezzo litro d'acqua per mandare giù il tutto. Anche in questo caso, purtroppo vedo grandi sprechi di cibo.
Per ingannare il tempo, inizio a raccogliere bottiglie, cartacce, bicchieri e spazzatura varia, per dare un aspetto più decente al cortile. Chissà se durerà. Poi, con il sole che inizia a battere inesorabilmente, andiamo a giocare a pallone, un po' nel campo da calcio e un po' in palestra. In quest'ultima assisto alla materializzazione della confusione. I presenti decidono se giocare a calcetto, a volley o a basket. Quasi l'unanimità vota basket. E infatti si gioca a volley. Si formano le squadre, che cambiano ogni due minuti. Si iniza a giocare e le regole si modificano ad ogni battuta, mentre si gioca, e senza che nessuno ci capisca niente. Le linee del campo valgono o non valgono, non si capisce in base a cosa. Se prima una giocata era regolare, quella successiva -l'esatta replica- non va più bene. Salta qualsiasi regola: praticamente non esiste il gioco di squadra e soprattutto non esiste la pallavolo, alla battuta va chi prende il pallone per primo e alla ricezione si pu? prendere la palla anche due volte. Insomma: la totale anarchia.
Dopo una mezz'oretta si vota di nuovo: ancora basket. E infatti si gioca a calcetto. Si fanno le squadre ma nessuno ha capito con chi è e soprattutto a cosa si gioca. Disorganizzazione pazzesca... In quanto "leader" cerco di contenere lo sbando ma parlo al vento. Per fortuna ci pensa Wara a farla finita con la mia rassegnata disperazione, chiamandoci a raccolta in vista della partenza. Caricati i bagagli partiamo. La meta è Nablus. Io pensavo di esserci già, fa niente. Mezz'oretta dopo arriviamo in questo caotico centro, piuttosto grande. Purtroppo ci stiamo solo per poche decine di minuti, e facciamo un giro a piedi tra le ricche bancarelle del mercato che si dirama tra vicoli e tunnel. Spezie, sementi, narghilé e accessori in legno d'ulivo e metallo, vestiti, pane e dolci, falafel e shawarma, carretti, cd, kefiah di vari colori, poster di martiri e persino dei giubbotti mimetici come quelli che di solito usano i kamikaze. Onestamente, vedere quei giubbotti e un paio di vecchi poster di Saddam Hussein mi mente un po' a disagio. Anche alcuni ragazzi si accorgono dei giubbotti e rimangono stupiti ma la buttano sul ridere. I più stupiti, per?, sono proprio gli abitanti di Nablus ma perché evidentemente non sono abituati a vedere scolaresche o comitive di turisti. L'arrivo dei ragazzi, in effetti, ha creato un certo scompiglio: tutti si fermano per strada, escono dai negozi, confabulano guardandoci. Un anziano signore con classico vestito arabo mi prende spontaneamente per un braccio e, guardando la fila dei ragazzini che si aggira per le vie di Nablus, mi chiede qualche cosa. Poco ma sicuro che mi ha scambiato per palestinese: non è la prima volta! Ritorniamo nel pullmann, qualcuno va a prendersi un gelato. Io non capisco che quello sarebbe il pranzo e cos? lo salto (me ne accorger? qualche ora dopo).
Prendiamo la strada del ritorno che, per motivi di oscuri permessi (credo che creerebbe problemi ai check point), è diversa dall'andata. Per la maggior parte del tempo chiacchiero con alcune ragazzine, principalmente 'Ala, che scopro essere sorella di Yara (la quale lavora al CCRR). Fa caldo, il viaggio è lungo. Passiamo un paio di checkpoints, e al secondo l'attesa sembra non finire mai. Tanto che mi addormento per un bel pezzo. E al mio risveglio siamo ancora l?. Sigh... Fortunatamente va tutto pe.r il meglio. Molte ore dopo, quando siamo a pochi chilometri da Betlemme, ci aspetta l'ultimo checkpoint. Baker, seduto accanto a me, dice che stavolta il dovrebbe essere veloce perché sanno che ne abbiamo già passati vari. Invece, sorpresa: due giovani soldati israeliani vogliono entrare e vedere. Salgono con il mitra, un po' spacconi. Il primo, biondidno, sui vent'anni, ha la faccia incazzosa di quello che vuole trovare un problema a tutti i costi. Il secondo, visibilmente un po' agitato, cerca di mantenere l'espressione di chi ha tutto sotto controllo. Hanno anche l'aria molto stanca e annoiata. Iniziano ad andare avanti e indietro, controllano a caso vari documenti. Tengo in vista il passaporto. Il biondino fa finta di non vederlo e passa oltre. Ritorna indietro, ricontrolla le file. Prende il passaporto di Alex e inzia a farle alcune domande secche. Poi indica tre ragazze, tra cui le animatrici Lydia e Wafa, le fa alzare e alzando la voce le fa scendere. Lydia e la ragazzina tornano su. Wafa, rimasta a terra, inizia a preoccuparsi ma si comporta molto spontaneamente quando i soldati ritornano da lei. Le chiedono qualche cosa, risponde, ma la portano via nel prefabbricato che funge da ufficio. L'attesa è lunghissima. Iniziano a circolare voci: "ha detto che ha dimenticato i documenti", dice qualcuno "s?, di solito ti arrestano per tre giorni", commenta un altro. "S? s?, l'hanno arrestata". Tutti gli sguardi sono rivolti alla porta dell'ufficio. Il tempo non passa più. Scende anche Amer, parla con un soldato che gesticola nervoso. Altri soldati arrivano, sono quattro in tutto. Un fuoristrada mimetizzato inzia a fare manovra, Appare la chioma di Wafa ma resta ancora accerchiata dai soldati. Finché inizia a camminare verso la corriera. Sale, tira un sospiro di sollievo ma ha ancora il viso teso. Almeno è finita, meno male... Eh no, un momento: i soldati continuano a parlare con Amer, gesticolano, vogliono qualche cosa. Ritornano: vogliono la ragazzina che era scesa prima assieme a Lydia. Scende, visibilmente agitata. Va verso l'ufficio e si rifugia accanto a Amer che si sbraccia mentre quattro soldati parlano, gesticolano, controllano accerchiandoli. Dopo vari minuti, entrambi ritornano. Stavolta è finita sul serio. Si torna a casa.
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Final event
E il summer camp è giunto alla fine. Ci si troverà alle 14 alla scuola per preparare le ultime cose. Mi sveglio tardi, decido di fare il bucato ma prima devo prelevare al bancomat. Qui vicino ci sono due banche ma una non ha il bancomat e l'altra, una banca islamica, non mi accetta la carta di credito. Boia cane, dovr? andare in cerca di una banca in centro a Betlemme. Cammino fra bancarelle e passanti, con il sole che mi arrostisce e le salite che mi fanno grondare di sudore, vagabondando senza meta. Non vedo insegne di banche. So che c'è una banca giordana vicino alla Basilica della Natività ma emette solo dinari giordani. L? vicino, per?, c'è anche un palazzo multifunzione con un ufficio di informazioni turistiche. Forse è il caso di andarci. Faccio bene, perché mi indicano dove porre fine con successo alle ricerche. Ora so che devo cercare le filiali della Arab Bank. Torno a casa passando per il supermercato, faccio il bucato e quando è l'ora esco. Ah, ho conosciuto anche la sorella di Abu Wahid, una signora molto gentile e cortese che mi ha pregato di rivolgermi a lei per qualsiasi cosa come se fosse mia madre. Assieme a lei c'era una donna anziana, forse la madre, dagli gli occhi azzurrissimi e un sorriso sincero stampato sul viso.
Alla scuola c'è un po' di fermento, i gruppi stanno ultimando i preparativi e noi animatori pure. Provo a fare un po' di pulizie sperando che durino. Verso metà pomeriggio arriva un gruppo di studenti universitari italiani, quasi tutti milanesi. Sono a Gerusalemme da fine giugno per studiare l'ebraico e hanno deciso di fare un salto nei Territori Occupati prima di tornare nello Stivale. A dire il vero, non hanno scelto un posto a caso: fra loro c'è anche Maddalena, che ho visto lo scorso aprile a Rimini al convegno nazionale della Rete Radié Resch. Mi ricordo di lei oltre che per i vivaci capelli rossi, perché stava sempre a chiacchierare con Ibrahim, anche lui presente. E infatti è venuta qui per salutarlo e per vedere come lavora questo famoso CCRR e conoscere questo celebre Noah Salameh. Amer mi incarica di accompagnarli, di illustrare loro il centro e di fare loro da "guida". Li porto a conoscere i gruppi,che per? sono tutti scatenatissimi e più incontenibili del solito. Le ragazze (molte sono educatrici o capi-scout o insegnanti) impazziscono, sono raggianti e si immaginano già alle prese con progetti di ogni tipo. Chiedono, sono tutti curiosi e, mentre distribuiscono lecca-lecca ai ragazzini, mi fanno molte domande. Sono stupiti di trovare una realtà diversa da quella che si aspettavano: a Gerusalemme li sconsigliavano di venire, li mettevano in guardia da pericoli e minacce. Nulla di più falso.
Purtroppo se ne vanno poco dopo l'inizio dello spettacolo, perché hanno varie cose ancora da fare negli ultimi giorni ()come studiare per l'esame finale) e il tempo è tiranno. Nel frattempo è arrivato anche Abu Wahid, al quale avevo dato l'invito del centro. Dice che se è qui è solo per me, perché l'ho invitato. Per? si lamenta del ritardo e della sporcizia. Purtroppo, infatti, la mia opera di pulizia totale dell'esterno è servita a poco: cartine di caramelle e sacchetti di patatine sono di nuovo dov'erano prima. Anche lui resta poco, perché deve andare in moschea a pregare. Dimostra poco entusiasmo e, quando tutti si alzano in piedi per l'inno nazionale, lui resta seduto. Mi stupisco: pensavo fosse molto nazionalista, è evidente che mi sbagliavo. Non finisce mai di stupirmi.
Lo spettacolo è un trionfo: sketch, danze, coreografie, persino bambini equilibristi. Tutti sono felici, genitori, fratelli e partecipanti. Ci sono anche le autorità e persino alcuni membri dello staff delle ong che hanno contribuito a finanziare il progetto del campo. Dopo la consegna dei diplomi di partecipazione (anche a me, per aver svolto il ruolo di animatore) faccio due chiacchiere con il tizio di War Child. E' in Palestina solo per cinque giorni, per fare un monitoraggio di alcuni progetti. Mi chiede com'è andata, come sono stati i ragazzi, com'erano le attività, cosa far? ora che è finito il campo. Capisce solo verso la fine che non sono palestinese e che lavorer? al CCRR nella valutazione qualitativa di un progetto finanziato da loro. Rimane un po' interdetto perché non capisce che cosa ci faccia un argentino, che vive in Italia, in Palestina...
Gli ultimi attimi, ormai all'imbrunire, sono quelli della fine di ogni campo estivo, grest, viaggio studio, camposcuola, ecc: foto ricordo, scherzi, firme e schizzi sulle magliette, bottigliate d'acqua, scambi di e-mails. La cosa strana è che in realtà, il summer camp non è affatto finito. L'ultima giornata (anche se è un fuori programma annunciato) è domani...
P.s.: oggi, camminando per Betlemme, mi sono reso conto che la presenza cristiana qui è forte. I palestinesi cristiani, infatti, sono molti e in alcune zone dell'intera Palestina storica (come a Nazareth, che pur essendo in Israele è rimasta una città araba) sono minoranze molto forti. Anche i titolari dell'internet point vicino alla moschea sono cristiani. E non mi sembra affatto che abbiano problemi: anche loro sono arabi palestinesi, di altra religione ma pur sempre appartenenti alla stessa cultura araba e palestinese.
P.p.s.: in questi giorni a livello politico è successo un po' di tutto: c'è stato un attentato a Gerusalemme ad opera di un arabo-israeliano a bordo di una ruspa; c'è stata la visita del primo ministro britannico al collega israeliano; c'è stato l'incontro del candidato alla Casa Bianca Barack Obama con I vertici israeliani e palestinesi. In teoria vicende degne di nota. Sarà anche perché non capisco l'arabo, ma sinceramente non mi è sembrato di vedere grande agitazione o interesse da parte della gente. Con gli animatori del Summer Camp, almeno, non se ne è fatta parola...
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Arabic
Ecco, il summer camp finisce ufficiosamente oggi, con una "sorpresa". L'appuntamento è per le 8.30 alla solita cuola ma quando arrivo c'è ancora poca gente. Per un'incomprensione Alex è qui già da mezz'ora. Il tempo passa, lento, lentissimo. Mentre aspettiamo, c'è chi gioca a calcio e chi va a caccia di persone con la maglietta del centro per metterci firme, dediche e quant'altro. La mia, ormai, sembra tutto fuorché una t-shirt. Finito lo spazio disponibile sulla stoffa, i ragazzini con i pennarelli infieriscono su braccia, mani, viso. Ibrahim e le sorelle arrivano con oltre un'ora di ritardo. Dopo quasi un'altra ora arriva il pullman. Meno male perchè ormai non sapevamo più che pesci pigliare. La sorpresa è presto svelata: piscina.
Arriviamo nella struttura, ben conservata, e iniziano subito I primi tuffi. Credo che in Italia (e vuol dire tanto, in un paese come il nostro dove le regole normalmente sono le eccezioni) quello che ho visto qui non si vedrebbe molto facilmente: bambini che correvano scalzi a bordo piscina, tuffi di ogni tipo principalmente spericolati, spinte di ogni genere e le immancabili cartacce in giro. C'era un bagnino (a volte) che guardava sconsolato e ogni tanto cercava di alzare la voce quando il vaso era colmo. Per fortuna non è successo nulla di nulla.
Inizialmente a nuotare c'erano solo i maschi, per un'ora abbondante. Solo Alex – che indossava uno strano costume che sembrava una specie di vestitino con tanto di gonnellina – aveva deciso di mettersi a mollo. Io ne ho approfittato per dormire. Dopo un po', invece, qualche ragazzina decide di andarsi a cambiare (le più grandi e tutte le animatrici sono rimaste fuori). Beh, dai costumi da bagno femminili si vede che questo è un paese arabo: ci sono s? i classici (ma pochi) due pezzi; più che altro si usano tanto dei costumi interi con questa specie di gonnellina che fa parte integrante. Le musulmane più osservanti (ma erano poche), invece, hanno costumi interi che coprono anche gambe e braccia.
Chi è a bordo piscina continua nell'attività di scribacchiare e disegnare sulla pelle delle schiene altrui: il disegno che va per la maggiore è quello di Handala. E qui, apro una piccola parentesi: Handala è una popolarissima vignetta di un noto esponente della resistenza palestinese, il disegnatore Naji Al Al?. Si tratta di un bambino scalzo, con i vestiti rattoppati e un testone con pochi capelli dritti, ritratto sempre di spalle e con le mani incrociate. Rivolge la schiena ai lettori per esprimere il suo dissenso, la sua delusione e perplessità per la situazione dei palestinesi. Praticamente è una specie di Charlie Brown che qui si vede ovunque: magliette, collanine, persino murales nelle scuole. Handala è diventato uno dei massimi simboli della resistenza, assieme alla Chiave che rappresenta la speranza del ritorno per i rifugiati: quasi tutti, infatti – prima di fuggire a causa della guerra seguita alla nascita di Israele – chiusero la porta delle loro case e si portarono via la chiave. Ancora oggi la conservano, cos? come quelle famiglie cui viene distrutta la casa per far spazio agli insediamenti.
Nel primo pomeriggio, inizia la caccia alle animatrici, foraggiata dall'arrivo di Amer: una dopo l'altra, di peso, vengono buttate vestite in piscina. Quando mi accorgo che manco solo io, scappo. Per? dopo poco Amer mi viene a prendere, con una specie di ultimatum: o mi butto da solo, o mi buttano loro. Mi arrendo. Splash.
Mentre mi asciugo al sole, Noor, una bambina di origini inglesi, mi supplica di rientrare in piscina. Con lei anche altri. Noor, per?, è particolarmente insistente, cos? mi rituffo. Alla fine penso di essere rimasto in acqua un'oretta abbondante, durante la quale ho pure insegnato a lei e ad una sua amica a nuotare o, quanto meno, a stare a galla. Beh, in effetti è stato proprio divertente!
Il pranzo è a base di hamburger e patatine ma, un po' sorpreso, vedo che appena finiscono di mangiare quasi tutti si ributtano tutti in acqua. Cerco di sconsigliarlo, si sa, la digestione... Alla fine, per?, arriva un gruppetto di bambine per una lezione di nuoto e quindi ce ne dobbiamo andare. Ridendo e scherzando sono quasi le 17! Risaliamo in autobus e iniziano i saluti, soprattutto per Alex che domani riparte per gli Stati Uniti. Un po' a malincuore e controvoglia.
Fra un paio d'ore, invece, avr? la mia prima lezione di arabo: il desiderio di Amer (e di tanti altri, a dire il vero) è che prima di tornare in Italia io riesca ad imparare qualche cosa. Per cui, di sua spontanea volontà, mi ha trovato un'insegnante che di solito lavora con stranieri. Si tratta di una donna in carrozzina, che abita nel campo profughi di Azeh, non lontano dal centro di Betlemme.
***
Ecco, sono tornato dalla prima lezione. Il campo profughi di Azeh è piccolo, a ridosso del centro storico in direzione di Beit Sahour. Lo si riconosce perché, all'entrata, c'è un cartello azzurro dell'UNRWA (la squattrinata agenzia Onu per i rifugiati palestinesi). In realtà è praticamente una viuzza, che si distingue dal resto della città perchè i suoi edifici sono fatiscenti e costruiti un po' a casaccio. Amer mi ha detto di chiedere a chiunque di Ekhlass, ché tutti la conoscono. Ci provo, addirittura in arabo: "Wen beit Ekhlass?". Due bambine con una maglietta rossa, di qualche summer camp, mi guardano e ridacchiano. Per? non hanno capito cosa voglio. Nemmeno un paio di uomini fuori in strada, che mi fanno segno di chiedere più avanti. Mi fermo da alcuni ragazzi che trafficano nel motore di un'auto scassata. Uno di loro parla inglese e chiede ad un bambino di accompagnarmi. Shuqran. Arrivo, la porta è aperta. Dentro ci sono quattro donne in abiti tradizionali, tre col velo, intente nelle loro faccende. "Welcome, please" mi dice una. Entro, saluto, ringrazio. Mi sento un po' a disagio perché non so quale sia il comportamento da tenere con le donne musulmane osservanti; ad esempio non so se dare la mano oppure no e altre cose simili. Tuttavia, loro sono meno imbarazzate di me e mi portano dalla mia futura prossima insegnante. Sono un po' in anticipo, quindi faccio in tempo a conoscere una "collega", forse statunitense. Ekhlass è in una carrozzina, muove solo un braccio. Ha tra i trenta e i quarant'anni e parla molto bene l'inglese e la stanzina in cui mi fa accomodare è diventata una piccola classe, con fotocopie e cartelli con Titti disegnati a mano da qualche bambino. Non nascondo di essere visibilmente emozionato, soprattutto perché forse finalmente inizier? a capire qualche cosa. E perché non so cosa mi aspetterà. "L'arabo è molto difficile, inutile nasconderlo. Per? con la pratica quotidiana inizierà ad uscire. Tu, poi, hai la fortuna di vivere qui quindi le cose dovrebbero essere più facili".
Cominciamo a conoscerci prima. Lei dice di essere abituata ad interagire con gente di ogni tipo di cultura, soprattutto europei, e quindi si propone non solo come insegnante di lingua ma anche come "introduttrice" alla cultura e al mondo arabo e islamico in genere. La sua attività di insegnante per stranieri, cos? come tante altre (dipinge, realizza calendari, fa traduzioni, ecc), sono un modo per guadagnarsi da vivere e fare la "propria parte".
Il tipo di lezione che mi propone è senza libri di testo e per il momento solo orale. Ci? che più mi interessa è poter in qualche modo interagire nel quotidiano, quindi per oggi imparer? a salutare, a chiedere informazioni personali, ad andare al negozio e a contare fino a 10. Cercherà di insegnarmi prevalentemente l'arabo "classico", senza perdere d'occhio l'arabo parlato che spesso differisce (da Paese a Paese ma anche da villaggio a villaggio).
Non so perché, ma i miei rudimenti di portoghese per ora mi danno una mano a memorizzare alcune parole e pronunce. Pure i dialetti italiani (in particolare della Sicilia) diventano utili cos? come anche lo spagnolo ed il tedesco. Oh, speriamo bene...
Durante la lezione, la sorella di Ekhlass mi porta prima un bicchiere di té con menta appena fatto e poi un altro di succo di pompelmo. Wow, l'ospitalità araba mi incanta. La mia prima ora e ½ vola via in un baleno, di carne al fuoco ce n'è parecchia e quindi è il caso di fermarsi. Dato che il rapporto insegnante-studente in questo caso non è formale, approfitto per fare qualche domanda e scambiare due parole. Provo ad esercitare subito qualche insegnamento ricevuto anche se a fatica, ma con gioia. Mi avevano offerto del caffé ma, essendo quasi le 20.30, chiedo scusa e rifiuto perché senn? non dormo più: qualche anno fa mi sono dato la regola delle 17.00, orario oltre il quale moooolto raramente bevo caffé (non mi farebbe dormire la notte).
Me ne vado felice e, con il foglio degli appunti in mano, inizio il ripasso mentre cammino verso casa. L? mi aspetta Abu Wahid che mi ha detto di andare immediatamente da lui a fargli vedere cosa ho imparato perché deve vedere se vale la pena o no. Lo saluto nel nuovo modo che ho imparato, mi fa accomodare in salotto e inizia ad esaminare ci? che ho scritto. Gli premetto che ho scritto tutto in maniera da facilitarmi le pronunce, quindi probabilmente la traslitterazione in inglese non è questa. Abu Wahid si lamenta un po' del fatto che sia mescolato l'arabo classico con lo slang di Betlemme, ma concorda col fatto che anche quello è utile soprattutto per le faccende quotidiane. Passa in rassegna la traduzione in inglese delle parole arabe che ho imparato e qui mi lascia con la bocca aperta. Quando arriva a 'ahlen, wah as-sahlen mi dice che è troppo riduttivo tradurlo come "benvenuto", poiché il vero significato è qualcosa come "entra in questa che è la tua casa, la via è piatta", ovvero: la mia casa è la tua casa, non ci sono ostacoli per te. Commenta che l'arabo, essendo una lingua religiosa, è ricco di sfumature e di metafore che lo rendono poetico e angelico tanto che, per i musulmani, in Paradiso si parla arabo. "Fai bene ad impararlo adesso, cos? sarai già pronto per il Paradiso!", dice ridendo. L'arabo, secondo Abu Wahid, è la lingua che emoziona perché parla al cuore. La parola Allah (Dio), ad esempio, è un soffio delicato che esce dal petto, quindi stabilisce un rapporto profondo e inscindibile con l'essere umano. Che dire...
Si rallegra quando gli dico, senza leggere, alcune cose e concorda con la mia insegnante: per imparare bene devo andare a fare la spesa e parlare arabo coi commessi. O almeno provarci. La moglie di Abu Wahid commenta che, parlando spagnolo, dovrei essere capace di produrre alcuni suoni e mi fa provare. In effetti qualche cosa viene fuori, meglio cos?. Saluto in arabo, iniziando cos? a praticare fin da subito.
E quando esco, accompagnato dal mio saggio padrone di casa, gli chiedo come devo comportarmi con le donne islamiche. Mi dice di non preoccuparmi né di arrabbiarmi se non danno la mano, che se portano il velo è solo per protezione e rispetto (che anche i mariti devono avere, sottolinea) e non per escluderle o trattarle al rango dei cani. In effetti ho notato che di solito, se si incrociano, gli uomini cedono la strada alle donne facendosi da parte. Di solito sono i maschi a scansarsi, qui, non le donne. Non sempre sono accompagnate da uomini, ma se lo sono, questi ultimi portano le borse. Qui a Betlemme, almeno, mi è capitato di vedere che funziona cos?.
Ok, è ora di mettersi a studiare. Mah ar salameh (bye bye).
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