15 dicembre 2008

Lasciare Israele

Visto che i miei cari amici e colleghi delle Brigate "Al-Pavia" fra non molto dovranno tornare nelle rispettive patrie (dalla Romagna in fiore alle isole soleggiate del Mediterraneo), scrivo la mia esperienza all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv il giorno della partenza.

Premessa.

Correva il giorno 17 ottobre 2008. Il nostro sfigato protagonista (me) si accingeva a dare l'addio alle brulle colline coperte di ulivi. La valigia era pronta, i regali presi, l'ultimo giro per le vie di pietra di Betlemme fatto, gli ultimi saluti dati. Tutto era compiuto, secondo le scritture ("2 weeks", come predisse l'ignobile meretrice al varco di Allenby tra Giordania e Palestina).
Egli si recò nella città del Tempio, l'eterna Gerusalemme, dove avrebbe trovato gli altri due discepoli e avrebbero trascorso gli ultimi momenti in quella terra. Stava cominciando l'Ultima Bevuta.
Circondati da decine di giovani ebrei ebbri che se ne strafottevano delle celebrazioni dello Shabbat, i nostri tre alcolisti dichiarati facevano il giro dei pub scolandosi pinte su pinte, prendendo per il culo la gente e sputando sulle porte del Ministero degli Interni, lanciando malefici sui portatori di treccine e su quella stronza che complicò per sadico piacere personale il rinnovo dei visti.
Conclusero a notte fonda con un'immagine, inneggiando a Gaza libera, fotografati da ignari occupanti. I sottobicchieri erano stati già farciti di scritte pro-Palestina. Un'azione degna del migliore etilista incosciente.

Era già passata abbondantemente l'una di notte. Faceva freddo, l'imponente Muro mi si stagliava davanti illuminato da potenti fari. Un'aria da cortina di ferro mi faceva catapultare con l'immaginazione alla Berlino degli anni '60. Pieno di pensieri in testa, vengo improvvisamente destato dall'abbaiare ostinato di un vecchio cane di media taglia svegliatosi per il rumore dei miei passi. L'avevo conosciuto qualche giorno prima ma verso mezzogiorno: stava sdraiato all'ombra di un ulivo, vicino ad uno dei pezzi di Banksy che ritraevano un salotto. Quando lo vidi non sembrava cattivo, impaurito piuttosto. Con la coda tra le gambe, le orecche tirate indietro, la schiena ingobbita e la testa rasa al suolo, restò fermo a guardarmi in attesa di una sassata. Che la mia mano non scagliò mai. Quel giorno non riuscii ad avvicinarlo.
Questa volta, però, decisi che l'avrei accarezzato a qualunque costo. I pianti dei cani randagi, i loro lamenti, mi hanno sempre turbato nelle notti palestinesi. Avevo l'opportunità di dimostrare ad uno di quei cani che non tutti i bipedi sono crudeli. Chiamatemi stupido, però sentivo che dovevo farlo.
La notte era fonda, Orione brillava su di me e un venticello freddo spolverava la strada deserta illuminata dai lampioni.
Per far avvicinare il cane color miele feci di tutto, finché mi intestardii e decisi che l'unica cosa da fare era comunicare con il suo linguaggio. Improvvisatomi cane, mi misi a quattro zampe e iniziai a piangere come fanno i cuccioli. Il cane smise di abbaiare e restò a guardare stupito per vari minuti. Siccome non bastava a fargli abbassare la guardia, decisi di sdraiarmi per terra a pancia in su, che nel linguaggio dei cani significa "non farmi male, non voglio che mi attacchi e te lo dimostro". Lo incitai ad avvicinarsi continuando a piangere.

Iniziò a muovere i primi timidi passetti muovendosi in maniera circolare per capire le mie intenzioni. A questo punto non mi restava che mostrargli la zampa, cioè allungargli il braccio. Per non inibirlo, chinai la testa.
E avvenne il miracolo: il cane si avvicinò, un passetto per volta, pian piano. Sembrava il lupo Due-Calzini quando, nel film "Balla coi Lupi", si avvicinò per la prima volta all'ufficiale dell'esercito (Kevin Costner) per mangiare dalle sue mani. Allungandosi pian piano, il cane venne a toccarmi le dita col naso umido e scappò via. Ripetè il gesto un paio di volte finché prese un po' di coraggio e si fermò qualche secondo di più. Allora mi alzai in piedi, lo vedevo più sicuro anche se continuava a mantenere la distanza. Il contatto definitivo avvenne poco dopo: il cane, che per un momento ebbe l'illusione di essere un capo-branco, si fermò a mangiare degli avanzi presi da un bidone della spazzatura. Pian piano mi avvicinanai e, chinandomi, allungai pian piano la mano. Si lasciò toccare, senza nemmeno voltarsi. Lo accarezzai, bisbigliandogli dolcemente delle parole. Lo accarezzai a lungo. Era malconcio, povero, ridotto a pelle e ossa. Triturava voracemente degli ossi sporchi e con gli occhi tristi mi guardava mentre gli carezzavo il muso e la testa. Ormai si fidava, aveva capito che, come nel Libro della Jungla di Kipling, eravamo "di uno stesso sangue". Mi sentii un po' come Mowgli quando cacciava coi lupi del Branco, parlando la stessa lingua e seguendo la stessa Legge. Per un po' vagammo insieme, toccandoci col muso lui e la mano io. Poi le nostre strade si divisero di fronte ad un'ansa disegnata dal Muro. Ci salutammo.
Un mio piccolo sogno palestinese si era realizzato. Spero solo che quel cane abbia trovato ancora delle mani pronte ad accarezzarlo, e non più sassi per colpirlo...

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