Mattina del 18 ottobre.
Ormai tutto era pronto. Dovevo solo fare le ultimissime cose come pagare le ultime bollette, controllare la posta e salutare Abu Wahid e i colleghi e amici del CCRR. Noah era già partito per la Giordania: con lui ci eravamo salutati la mattina del giovedì, prima di andare con Jonas e Lina a vedere i trainings per gli insegnanti in due scuole a sud di Hebron. Ah, ecco un altra cosa di cui dovrò parlare...
Non sono mai stato bravo a fare gli addii o ad andarmene via. Non so mai cosa dire e come non cadere nel ridicolo o nel troppo sentimentale. E' proprio un qualcosa che non mi viene spontaneo. Dovrebbe essere un taglio netto e invece non mi decido mai: diventa una cosa lunghissima ogni volta. E questa non fece eccezione.
tanto che rischiavo di arrivare in ritardo all'aeroporto. Quando era palese che fosse già esageratamente tardi, salutai tutti uno per uno. Non volevo veramente andarmene ma c'era poco da fare ormai. Così mi decisi e me ne andai, seguendo Jonas in macchina. Andammo a prendere i miei bagagli, così salutai anche Abu Wahid sperando ognuno di rivedere l'altro non troppo in là. La macchina bianca era diretta al Check point, io iniziavo ad essere nervoso e un po' agitato. La paranoia saliva: pochi giorni prima, avevo letto un articolo di un giornalista italiano sui controlli di sicurezza israeliani. Diceva più o meno: "Sapete tutte le dicerie che si raccontano sulle paranoie degli addetti israeliani alla sicurezza e su tutte le loro infinite procedure di controllo? Bene, è tutto vero". In tre mesi ce ne eravamo accorti e sapevamo anche che se entrare in Israele è tutto sommato facile, uscire è una tragedia.
Mi innervosii moltissimo quando al Checkpoint di Betlemme un soldato israeliano ci fece aprire la macchina. "Ecco, lo sapevo, porca puttana"! Jonas iniziò a prendermi in giro per sdrammatizzare: "Hey, è la prima volta che mi succede. E anche l'altro giorno quando tornavamo da Jenin era la prima volta che mi fermavano con Noah. Non è che sei tu a portare sfortuna?". Come diceva Lupo Alberto: la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo. E a volte sono convinto che abbia il mio nome tatuato sulla fronte...
Falso allarme, comunque. Passiamo senza problemi. Di là ci aspetta Massimo con la coopi-car. Mahira ci fa una sorpresa: è mezzogiorno inoltrato, fa un caldo boia ma la tensione produce fame. Ebbene, le sue manine sante estraggono due buste contenenti pane e falafel caldi caldi. L'ultima lattina di birra Amstel, fresca fresca, esce invece dalla mia tasca. Pranzo in macchina, l'ultimo, a base di immancabili ceci che ormai ci escono da tutti i pori. Il viaggio è tranquillo, tranne per un quasi-incidente quasi-provocato da un "portatore di treccine" che viene insultato in romagnolo dal nostro fedele guidatore. L'aria, man mano che ci si avvicina a Tel Aviv, si arroventa. Caldo irresistibile...
Arrivati, l'ultimo addio ai compagni di viaggio che mi incitano a tenere duro in vista degli interrogatori. Ciao Massimo, ciao Mahira. Grazie di tutto, mi mancherete. Vi penserò spesso (soprattutto Massimo e il suo visto ancora da rinnovare).
Prima di entrare attraverso le porte di vetro, vengo subito fermato dal primo addetto alla sicurezza in borghese che mi fa un sacco di domande sui miei accompagnatori. "Sì, li conosco; No, sono italiani; no, non partono; sì, abitano a Gerusalemme; no, te l'ho già detto che li conosco; no, ti ho già detto che parto solo io; no, li sto solo salutando col braccio". Convinto il tizio, entro. E inizia la lunga procedura.
"Mi segua" e seguo varie persone che, dopo aver parlato tra loro in ebraico guardandomi, mi consegnano a questo e poi a quello, e infine a due ragazze in divisa blu. Una ha l'aria dell'apprendista: è quella che, un po' timidamente, mi fa le domande che la bionda dall'aria di capo, le fa in ebraico. Per mezz'ora mi tempestano di domande di ogni genere. Domande a raffica, alle quali non sempre riesco a rispondere completamente a causa del ritmo incalzante. Vogliono sapere veramente tutto, nei minimi particolari, e non solo sul perché e il percome sono finito in "Israele" (mi sono messo in testa di levarmi dalla mente qualsiasi parola come "palestina-palestinese-musulmani-occupazione"). Rispondo sereno, portando prove, glissando sui particolari, raccontando qualche balla, sorridendo, facendo il finto tonto e ripetendo le stesse risposte a domande diverse. La mia serenità infastidisce la bionda, si vede chiaramente: ogni volta che sente di prendermi in castagna si scontra con le mie risposte. Mi inorgoglisco per l'impeccabilità e ogni paura inizia a svanire. So che non mi possono fregare in alcun modo e semplicemente glielo dimostro. Anche con delle battute che la bionda non gradisce per nulla. Incazzata come una vipera, per la prima volta mi rivolge direttamente la parola in inglese, senza far parlare la mora: "Qualcuno ti ha dato qualche cosa prima di partire?", "No - rispondo fingendo di pensarci- non credo, anzi: solo una T-shirt", "E allora pensaci bene, perchè potrebbe essere una bomba" e, con un sorriso sarcastico chiuse lì il lungo interrogatorio.
La guardai a bocca aperta mentre si allontanava con l'altra ragazza e pensai, "come no... Non sapevo che il cotone esplodesse".
Chiusa la raffica di domande, iniziò la lunghissima perquisizione di ogni cosa. Doppio controllo al metal detector di ogni mia cosa, alla quale appiccicarono un adesivo con un contrassegno di riconoscimento. Apertura dei bagagli e di ogni sacco e sacchetto: proprio quello che temevo (più che altro per la rottura di rifare le valige da capo). Poi, ben 5 addetti alla sicurezza avvalendosi di sofisticate apparecchiature iniziano a controllare ogni fibra di ogni oggetto, capo di abbigliamento, ecc. Controllo a parte con altre apparecchiature dei congegni elettronici (laptop soprattutto, al quale avevo precedentemente eliminato qualsiasi tipo di riferimento a "palestina-palestinesi-islam-musulmani-occupazione"). Mentre i 5 setacciavano le mie proprietà, venivo allontanato in un'altra stanza per una perquisizione a fondo. In muntande lasciai fare senza mugugnare, e il mio livello di paranoia iniziò a salire di nuovo. Era da più di un'ora ormai che mi stavano controllando anche le pulci e non vedevo la fine di quella enorme rottura.
Dopo qualche minuto, mi veniva concesso di rivestirmi e di ritornare a riabbracciare i cadaveri sventrati dei miei bagagli. Un'esplosione di pantaloni, fotocopie, magliette e souvenirs che ora dovevo cercare di far rientrare al loro posto. Porca troia...
Per fortuna i 5 vivisezionatori di bagagli mi diedero una mano per ripristinare l'ordine anche se alcune cose fui costretto a farle spedire perché non mi era consentito di portarle a bordo.
All'ennesimo "mi segua" iniziai a perdere la fede. Pronto per un'altra serie di sfiancanti controlli, segui muto muto l'addetto alla sicurezza percorrendo solitari corridoi, scale e ascensori. Finché, inaspettatamente, mi sentii dire: "Esca di qua, buon viaggio". Come? E' finito tutto? "Sì, abbiamo finito, può imbarcarsi". Yuhuu!!!!!!!!
Cammino e cammino fino ad arrivare al mio terminal e non mi siedo neanche ad aspettare il momento dell'imbarco.
Inizio a fare la fila da solo.
"Now boarding".
Bye bye
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento