31 dicembre 2008
30 dicembre 2008
Ecco i terroristi di Gaza
28 dicembre 2008
24 dicembre 2008
BUON NATALE
22 dicembre 2008
Giornalino della Parrocchia
Lo ripropongo qui di seguito:
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In Palestina, semplicemente...
“In Palestina semplicemente” è il nome del blog che ho scritto nei tre mesi passati a Betlemme, Territori Occupati Palestinesi, da luglio a ottobre di quest'anno. Ci sono andato per svolgervi un tirocinio presso una ong palestinese, il Centro per la Risoluzione dei Conflitti e la Riconciliazione (CCRR) ma anche perchè la Palestina, la “Terra Santa”, è un posto che ho sempre voluto vedere, capire, toccare. Non riuscirò a spiegare tutto in pochi paragrafi, mi accontenterò di lanciare qualche messaggio e provocazione, con la speranza di suscitare dubbi e riflessioni in chi legge.
E' stato difficile vivere quei territori così carichi di significato, di storia e di conflitti intricati e sovrapposti. E' stato ancora più drammatico capire che il terreno comune alle tre grandi religioni è diventato terra di scontro, accuse e sospetti, in cui paradossalmente è spesso difficile capire chi abbia torto e chi ragione (nonostante sia innegabile che la terribile occupazione israeliana è la causa scatenante di ogni problema). Ho vissuto con grande oppressione la “santità” dei luoghi e le divisioni religiose che permeano ogni aspetto della vita. La religione, qualunque, in “terra santa” è veramente soffocante.
Sono stati tre mesi intensi che tuttavia mi hanno lasciato un buon ricordo. A cominciare dalla popolazione di fede musulmana. Ospite di una famiglia sunnita, ho potuto toccare con mano il vero Islam, non quello che ci fanno vedere in televisione. Ho goduto della loro grande ospitalità e cultura e poesia e ho apprezzato il loro profondo senso del rispetto per me, occidentale e cristiano (nonostante la mia ostentata laicità) e il mio modo di fare, di essere, di vivere anche quando poteva essere scomodo (come per il consumo di alcolici). Un rispetto che ho ricambiato nel mese di Ramadan (e mi sono tanto vergognato leggendo le notizie che, in quel periodo, arrivavano da Treviso), a lavoro o nella vita quotidiana quando, ad esempio, andavo a prendere lezioni di arabo nella casa di una donna musulmana invalida in un campo profughi alle porte di Betlemme.
Nel CCRR, invece, ho lavorato alla valutazione di un progetto di educazione alla nonviolenza nelle scuole: il conflitto perenne ha stravolto profondamente la vita quotidiana dei palestinesi (e anche degli israeliani), soprattutto dei bambini che, abituati alla violenza, non conoscono altri modi per risolvere i loro problemi. Giocando con loro, chiacchierando, ridendo, ho constatato che i progetti di educazione valgono molto di più dei miliardi di euro spesi dalla cooperazione internazionale dei nostri governi, una cooperazione che incrementa solo l'industria dell'occupazione, l'assistenzialismo, le divisioni e il senso di impotenza, umiliazione e apatia. L'educazione paga ed è un grande investimento, forse il più importante. (Speriamo che lo capisca anche il governo italiano).
L'esperienza nel centro è stata splendida, grazie anche alla presenza e all'esempio di Noah Salameh, figlio di profughi palestinesi che dopo aver scontato 15 anni nelle galere israeliane per la sua militanza nella resistenza, decise di votarsi totalmente alla causa della nonviolenza attiva. Noah – uno dei referenti di lunga data della nostra associazione, e che è anche stato ospite nostro qui nel trevigiano - fa parte anche di Pax Christi nonostante sia musulmano, perché lavora intensamente al dialogo interreligioso fra cristiani, musulmani ed ebrei e alla costruzione della pace in Palestina.
Lavorando e vivendo a stretto contatto con i palestinesi, ho vissuto sulla mia pelle il dramma dell'occupazione che (tra giordani e israeliani) dura ormai dal 1948. Un'occupazione crudele, cinica e che viola sistematicamente e quotidianamente ogni diritto umano. Impedisce lo sviluppo di un popolo fino anche a negarne l'esistenza e non fa distinzioni all'ora di reprimere. musulmani, cristiani, palestinesi, stranieri, donne, anziani, bambini, tutti sono potenziali vittime. Proprio a causa dell'occupazione ho dovuto anticipare il mio rientro poiché le autorità: israeliane mi negarono il rinnovo del visto senza peraltro motivare la loro scelta. Anche se per me era chiara: avevo osato nominare la Palestina e dire che stavo lavorando con una organizzazione palestinese...
Venendo ai “luoghi santi” e ai pellegrini, mi dispiace dirlo ma li ho vissuti molto male. Affollati, chiassosi, invasi da migliaia di turisti feticisti e irrispettosi, tutti mascherati da pellegrini, ricchi di madonnine e crocefissi ma con gli occhi bendati di fronte alla terribile realtà di oppressione e ingiustizia che li circondava. Più interessati a toccare e scattarsi la foto coi cimeli di un Gesù trasformato in celebrità piuttosto che a capire il messaggio del Cristo. Per contro, ogni volta non potevo che ammirare il silenzioso rispetto con cui i pellegrini musulmani visitavano la Basilica della Natività o il Santo Sepolcro. Una lezione che dimenticherò difficilmente e che mi ha segnato molto.
Data la prossimità del Natale, chiudo con una cruda ma attuale riflessione che feci proprio davanti alla Grotta della Natività a Betlemme, in un rarissimo momento di silenzio e di pace:
“Tocco le pareti, vedo che ci sono ancora resti della grotta vera e propria, con la roccia nuda, nera e lucida (chissà quante mani l'hanno accarezzata). Provo un'emozione mista a tristezza. Il Posto è questo, quindi; è qui che c'erano pecore, asini e buoi a scaldare una nuova, fragile vita, e a rendere l'aria irrespirabile. Qui si rifugiarono due futuri genitori, stanchi e sporchi per il lungo viaggio. In questo antro isolato, così minuscolo, spoglio, brutto, buio e, all'epoca, sicuramente sporco. Una grotta, un tugurio per nulla accogliente, fra gli animali, come animali”.
Dopo duemila anni, in Palestina c'è chi nasce ancora così. Non abbiamo imparato niente. Ma spero di sbagliarmi.
Un sincero augurio di buon Natale, di uguaglianza, di pace e di giustizia.
Jorge Ramón Centurión
Rete Radié Resch
17 dicembre 2008
16 dicembre 2008
Viene prima l'uovo...
La "gloriosa" squadra argentina (purtroppo è vero) del river plate, internazionalmente apostrofata col nomignolo di "galline" (per il coraggio l'accomuna con questo feroce pennuto) ha appena concluso un fantasmagorico torneo riuscendo nella meravigliosa impresa di arrivare ULTIMA, vincendo solo due incontri!!!!!!! Per cui:
Ah, nel frattempo il Boca Juniors si contenderà il titolo (ma non è una novità, siamo abituati a volare alto, cosa che le galline non riescono a fare) in un inedito mini-torneo a tre con il S. Lorenzo e la sorpresa Tigre, anche loro arrivati al primo posto.
15 dicembre 2008
Lasciare Israele/ 2
Ormai tutto era pronto. Dovevo solo fare le ultimissime cose come pagare le ultime bollette, controllare la posta e salutare Abu Wahid e i colleghi e amici del CCRR. Noah era già partito per la Giordania: con lui ci eravamo salutati la mattina del giovedì, prima di andare con Jonas e Lina a vedere i trainings per gli insegnanti in due scuole a sud di Hebron. Ah, ecco un altra cosa di cui dovrò parlare...
Non sono mai stato bravo a fare gli addii o ad andarmene via. Non so mai cosa dire e come non cadere nel ridicolo o nel troppo sentimentale. E' proprio un qualcosa che non mi viene spontaneo. Dovrebbe essere un taglio netto e invece non mi decido mai: diventa una cosa lunghissima ogni volta. E questa non fece eccezione.
tanto che rischiavo di arrivare in ritardo all'aeroporto. Quando era palese che fosse già esageratamente tardi, salutai tutti uno per uno. Non volevo veramente andarmene ma c'era poco da fare ormai. Così mi decisi e me ne andai, seguendo Jonas in macchina. Andammo a prendere i miei bagagli, così salutai anche Abu Wahid sperando ognuno di rivedere l'altro non troppo in là. La macchina bianca era diretta al Check point, io iniziavo ad essere nervoso e un po' agitato. La paranoia saliva: pochi giorni prima, avevo letto un articolo di un giornalista italiano sui controlli di sicurezza israeliani. Diceva più o meno: "Sapete tutte le dicerie che si raccontano sulle paranoie degli addetti israeliani alla sicurezza e su tutte le loro infinite procedure di controllo? Bene, è tutto vero". In tre mesi ce ne eravamo accorti e sapevamo anche che se entrare in Israele è tutto sommato facile, uscire è una tragedia.
Mi innervosii moltissimo quando al Checkpoint di Betlemme un soldato israeliano ci fece aprire la macchina. "Ecco, lo sapevo, porca puttana"! Jonas iniziò a prendermi in giro per sdrammatizzare: "Hey, è la prima volta che mi succede. E anche l'altro giorno quando tornavamo da Jenin era la prima volta che mi fermavano con Noah. Non è che sei tu a portare sfortuna?". Come diceva Lupo Alberto: la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo. E a volte sono convinto che abbia il mio nome tatuato sulla fronte...
Falso allarme, comunque. Passiamo senza problemi. Di là ci aspetta Massimo con la coopi-car. Mahira ci fa una sorpresa: è mezzogiorno inoltrato, fa un caldo boia ma la tensione produce fame. Ebbene, le sue manine sante estraggono due buste contenenti pane e falafel caldi caldi. L'ultima lattina di birra Amstel, fresca fresca, esce invece dalla mia tasca. Pranzo in macchina, l'ultimo, a base di immancabili ceci che ormai ci escono da tutti i pori. Il viaggio è tranquillo, tranne per un quasi-incidente quasi-provocato da un "portatore di treccine" che viene insultato in romagnolo dal nostro fedele guidatore. L'aria, man mano che ci si avvicina a Tel Aviv, si arroventa. Caldo irresistibile...
Arrivati, l'ultimo addio ai compagni di viaggio che mi incitano a tenere duro in vista degli interrogatori. Ciao Massimo, ciao Mahira. Grazie di tutto, mi mancherete. Vi penserò spesso (soprattutto Massimo e il suo visto ancora da rinnovare).
Prima di entrare attraverso le porte di vetro, vengo subito fermato dal primo addetto alla sicurezza in borghese che mi fa un sacco di domande sui miei accompagnatori. "Sì, li conosco; No, sono italiani; no, non partono; sì, abitano a Gerusalemme; no, te l'ho già detto che li conosco; no, ti ho già detto che parto solo io; no, li sto solo salutando col braccio". Convinto il tizio, entro. E inizia la lunga procedura.
"Mi segua" e seguo varie persone che, dopo aver parlato tra loro in ebraico guardandomi, mi consegnano a questo e poi a quello, e infine a due ragazze in divisa blu. Una ha l'aria dell'apprendista: è quella che, un po' timidamente, mi fa le domande che la bionda dall'aria di capo, le fa in ebraico. Per mezz'ora mi tempestano di domande di ogni genere. Domande a raffica, alle quali non sempre riesco a rispondere completamente a causa del ritmo incalzante. Vogliono sapere veramente tutto, nei minimi particolari, e non solo sul perché e il percome sono finito in "Israele" (mi sono messo in testa di levarmi dalla mente qualsiasi parola come "palestina-palestinese-musulmani-occupazione"). Rispondo sereno, portando prove, glissando sui particolari, raccontando qualche balla, sorridendo, facendo il finto tonto e ripetendo le stesse risposte a domande diverse. La mia serenità infastidisce la bionda, si vede chiaramente: ogni volta che sente di prendermi in castagna si scontra con le mie risposte. Mi inorgoglisco per l'impeccabilità e ogni paura inizia a svanire. So che non mi possono fregare in alcun modo e semplicemente glielo dimostro. Anche con delle battute che la bionda non gradisce per nulla. Incazzata come una vipera, per la prima volta mi rivolge direttamente la parola in inglese, senza far parlare la mora: "Qualcuno ti ha dato qualche cosa prima di partire?", "No - rispondo fingendo di pensarci- non credo, anzi: solo una T-shirt", "E allora pensaci bene, perchè potrebbe essere una bomba" e, con un sorriso sarcastico chiuse lì il lungo interrogatorio.
La guardai a bocca aperta mentre si allontanava con l'altra ragazza e pensai, "come no... Non sapevo che il cotone esplodesse".
Chiusa la raffica di domande, iniziò la lunghissima perquisizione di ogni cosa. Doppio controllo al metal detector di ogni mia cosa, alla quale appiccicarono un adesivo con un contrassegno di riconoscimento. Apertura dei bagagli e di ogni sacco e sacchetto: proprio quello che temevo (più che altro per la rottura di rifare le valige da capo). Poi, ben 5 addetti alla sicurezza avvalendosi di sofisticate apparecchiature iniziano a controllare ogni fibra di ogni oggetto, capo di abbigliamento, ecc. Controllo a parte con altre apparecchiature dei congegni elettronici (laptop soprattutto, al quale avevo precedentemente eliminato qualsiasi tipo di riferimento a "palestina-palestinesi-islam-musulmani-occupazione"). Mentre i 5 setacciavano le mie proprietà, venivo allontanato in un'altra stanza per una perquisizione a fondo. In muntande lasciai fare senza mugugnare, e il mio livello di paranoia iniziò a salire di nuovo. Era da più di un'ora ormai che mi stavano controllando anche le pulci e non vedevo la fine di quella enorme rottura.
Dopo qualche minuto, mi veniva concesso di rivestirmi e di ritornare a riabbracciare i cadaveri sventrati dei miei bagagli. Un'esplosione di pantaloni, fotocopie, magliette e souvenirs che ora dovevo cercare di far rientrare al loro posto. Porca troia...
Per fortuna i 5 vivisezionatori di bagagli mi diedero una mano per ripristinare l'ordine anche se alcune cose fui costretto a farle spedire perché non mi era consentito di portarle a bordo.
All'ennesimo "mi segua" iniziai a perdere la fede. Pronto per un'altra serie di sfiancanti controlli, segui muto muto l'addetto alla sicurezza percorrendo solitari corridoi, scale e ascensori. Finché, inaspettatamente, mi sentii dire: "Esca di qua, buon viaggio". Come? E' finito tutto? "Sì, abbiamo finito, può imbarcarsi". Yuhuu!!!!!!!!
Cammino e cammino fino ad arrivare al mio terminal e non mi siedo neanche ad aspettare il momento dell'imbarco.
Inizio a fare la fila da solo.
"Now boarding".
Bye bye
Lasciare Israele
Premessa.
Correva il giorno 17 ottobre 2008. Il nostro sfigato protagonista (me) si accingeva a dare l'addio alle brulle colline coperte di ulivi. La valigia era pronta, i regali presi, l'ultimo giro per le vie di pietra di Betlemme fatto, gli ultimi saluti dati. Tutto era compiuto, secondo le scritture ("2 weeks", come predisse l'ignobile meretrice al varco di Allenby tra Giordania e Palestina).
Egli si recò nella città del Tempio, l'eterna Gerusalemme, dove avrebbe trovato gli altri due discepoli e avrebbero trascorso gli ultimi momenti in quella terra. Stava cominciando l'Ultima Bevuta.
Circondati da decine di giovani ebrei ebbri che se ne strafottevano delle celebrazioni dello Shabbat, i nostri tre alcolisti dichiarati facevano il giro dei pub scolandosi pinte su pinte, prendendo per il culo la gente e sputando sulle porte del Ministero degli Interni, lanciando malefici sui portatori di treccine e su quella stronza che complicò per sadico piacere personale il rinnovo dei visti.
Conclusero a notte fonda con un'immagine, inneggiando a Gaza libera, fotografati da ignari occupanti. I sottobicchieri erano stati già farciti di scritte pro-Palestina. Un'azione degna del migliore etilista incosciente.
Era già passata abbondantemente l'una di notte. Faceva freddo, l'imponente Muro mi si stagliava davanti illuminato da potenti fari. Un'aria da cortina di ferro mi faceva catapultare con l'immaginazione alla Berlino degli anni '60. Pieno di pensieri in testa, vengo improvvisamente destato dall'abbaiare ostinato di un vecchio cane di media taglia svegliatosi per il rumore dei miei passi. L'avevo conosciuto qualche giorno prima ma verso mezzogiorno: stava sdraiato all'ombra di un ulivo, vicino ad uno dei pezzi di Banksy che ritraevano un salotto. Quando lo vidi non sembrava cattivo, impaurito piuttosto. Con la coda tra le gambe, le orecche tirate indietro, la schiena ingobbita e la testa rasa al suolo, restò fermo a guardarmi in attesa di una sassata. Che la mia mano non scagliò mai. Quel giorno non riuscii ad avvicinarlo.
Questa volta, però, decisi che l'avrei accarezzato a qualunque costo. I pianti dei cani randagi, i loro lamenti, mi hanno sempre turbato nelle notti palestinesi. Avevo l'opportunità di dimostrare ad uno di quei cani che non tutti i bipedi sono crudeli. Chiamatemi stupido, però sentivo che dovevo farlo.
La notte era fonda, Orione brillava su di me e un venticello freddo spolverava la strada deserta illuminata dai lampioni.
Per far avvicinare il cane color miele feci di tutto, finché mi intestardii e decisi che l'unica cosa da fare era comunicare con il suo linguaggio. Improvvisatomi cane, mi misi a quattro zampe e iniziai a piangere come fanno i cuccioli. Il cane smise di abbaiare e restò a guardare stupito per vari minuti. Siccome non bastava a fargli abbassare la guardia, decisi di sdraiarmi per terra a pancia in su, che nel linguaggio dei cani significa "non farmi male, non voglio che mi attacchi e te lo dimostro". Lo incitai ad avvicinarsi continuando a piangere.
Iniziò a muovere i primi timidi passetti muovendosi in maniera circolare per capire le mie intenzioni. A questo punto non mi restava che mostrargli la zampa, cioè allungargli il braccio. Per non inibirlo, chinai la testa.
E avvenne il miracolo: il cane si avvicinò, un passetto per volta, pian piano. Sembrava il lupo Due-Calzini quando, nel film "Balla coi Lupi", si avvicinò per la prima volta all'ufficiale dell'esercito (Kevin Costner) per mangiare dalle sue mani. Allungandosi pian piano, il cane venne a toccarmi le dita col naso umido e scappò via. Ripetè il gesto un paio di volte finché prese un po' di coraggio e si fermò qualche secondo di più. Allora mi alzai in piedi, lo vedevo più sicuro anche se continuava a mantenere la distanza. Il contatto definitivo avvenne poco dopo: il cane, che per un momento ebbe l'illusione di essere un capo-branco, si fermò a mangiare degli avanzi presi da un bidone della spazzatura. Pian piano mi avvicinanai e, chinandomi, allungai pian piano la mano. Si lasciò toccare, senza nemmeno voltarsi. Lo accarezzai, bisbigliandogli dolcemente delle parole. Lo accarezzai a lungo. Era malconcio, povero, ridotto a pelle e ossa. Triturava voracemente degli ossi sporchi e con gli occhi tristi mi guardava mentre gli carezzavo il muso e la testa. Ormai si fidava, aveva capito che, come nel Libro della Jungla di Kipling, eravamo "di uno stesso sangue". Mi sentii un po' come Mowgli quando cacciava coi lupi del Branco, parlando la stessa lingua e seguendo la stessa Legge. Per un po' vagammo insieme, toccandoci col muso lui e la mano io. Poi le nostre strade si divisero di fronte ad un'ansa disegnata dal Muro. Ci salutammo.
Un mio piccolo sogno palestinese si era realizzato. Spero solo che quel cane abbia trovato ancora delle mani pronte ad accarezzarlo, e non più sassi per colpirlo...
La cooperazione internazionale e la Palestina
Oggi ho ricevuto una mail dall'AIC di Beit Sahour (l'Alternative Information Center) che pubblicizza un incontro con un economista. Si parlerà, appunto, dell'ingente quantità di fondi che arrivano in Palestina.
Ecco il testo originale:
The Goals and Consequences of Foreign Aid to Palestine
by Shir Ever
The international community has been spending more money per Palestinian than on nearly any other group in the world, and yet this aid has failed to advance the political goals which it was intended to achieve. What are these goals? Why has aid failed? In which new direction are donors trying to take aid?".
La traduzione (pressapochista) è la seguente:
"Gli obiettivi e le conseguenze degli aiuti esteri alla Palestina" di Shir Ever
La comunità internazionale ha speso più soldi per Palestinese che per qualsiasi altro gruppo nel mondo, e questi aiuti ancora non sono riusciti a far avanzare gli obiettivi politici che intendevano raggiungere. Quali sono questi obiettivi? Perché gli aiuti hanno fallito? In quale direzione i donatori stanno cercando di portare gli aiuti?
Mentre ero in Palestina era evidente come il flusso di aiuti internazionale fosse ingente e chiunque si sarebbe chiesto, vedendo così tanti soldi spesi, come mai la situazione fosse ancora così disastrosa. L'ho già scritto una volta: al Master di Pavia ci hanno detto chiaro e tondo che la Palestina è uno di quegli esempi perfetti di cooperazione internazionale "nociva", cioè che più che aiutare a svilupparsi ottiene esattamente l'effetto opposto.
Si potrebbe scrivere un libro sull'argomento. Fatto sta che purtroppo è veramente questa la situazione ma è molto difficile capire come venirne fuori: insomma, è un circolo vizioso. Da un lato la cooperazione internazionale è funzionale all'occupazione, distorce la realtà, diseduca il popolo palestinese. Dall'altro, però, ridurre il flusso rappresenterebbe una catastrofe per i palestinesi, che da soli non hanno i mezzi per risolvere i propri problemi.
Personalmente penso questo: piuttosto che spendere miliardi di dollari e euro in puttanate, si dovrebbe puntare di più sui progetti di educazione e istruzione (di cui c'è tantissimo bisogno in Palestina, ma non solo: l'istruzione è sempre un investimento, mai un costo e basta!), rafforzare le realtà locali già esistenti e sforzarsi per una pace che non lasci fuori la giustizia. Finché non si farà vera giustizia in Palestina, nessuna pace e nessuno sviluppo potranno essere proficui e duraturi.
No, non ho finito...
Ormai sono passati quasi due mesi dal mio rientro, ho mentalmente tirato le somme e prima o poi (leggi "fra qualche mese") le scriverò anche qui. Nel frattempo, però, mi devo confrontare con una realtà per niente facile qui nella "locomotiva Nordest", nel Veneto produttivo, dove non riesco a trovare lavoro.
Sto inondando le agenzie interinali di miei CV, sono ormai diventato amico della bacheca dell'Informagiovani di Treviso dove vado a leggere gli annunci, contatto organizzazioni, chiedo, propongo. Niente da fare, sono destinato alla disoccupazione e a pagare bollette. Solo la grappa mi tira su (e non è un bel dire).
A quanto pare devo pentirmi di aver osato studiare; a volte mi pento di non essermi fermato alle superiori (di sicuro starei già lavorando e avrei anche qualche soldo da parte) o quantomeno di non aver intrapreso un altro tipo di corso di studi (scienze internazionali e diplomatiche? Ma per favore...). A volte la butto sul ridere, scoprendo che tanti hanno trovato lavoro seguendo l'argomento della propria tesi. Beh: io l'avevo fatta sulla crisi argentina (quella del 2001) e i tanti movimenti sociali sorti in quel periodo, come i movimenti di lavoratori disoccupati. Avrei dovuto sapere cosa mi aspettava!